I

Storia della critica foscoliana

1. La valutazione dei contemporanei

All’opera foscoliana non mancarono giudizi e reazioni contemporanee, come sin dalla prima apparizione del Foscolo a Venezia non mancarono neppure elogi poetici che testimoniano la forte impressione suscitata da quella originalissima e vistosa personalità.

Anche se appartengono all’aneddotica i versi ispirati da quel giovane povero e ardente, lettore eccezionale dei propri componimenti, ci indicano un primo avvio della opinione dei contemporanei di fronte al Foscolo uomo e poeta di tempi nuovi anche se trattenuto ancora in schemi antiquati.

Cosí il sonetto di Odoardo Samueli e l’ode di Fernando Vaini nell’«Anno Poetico» del 1797 concorrono nel darci un ritratto preromantico ed esasperato del giovane Foscolo a cui indubbiamente cooperavano il suo aspetto fisico, il suo atteggiamento ispirato e insieme la sua prima prestazione poetica.

Quando io ti vidi rabbuffati i crini,

con rauca voce e fiammeggianti sguardi

cantar in suon feroce i sacri ond’ardi

del tuo padre Alighier carmi divini...

[...]

cingi, Italia, gridai, le fulve chiome

del non tuo figlio, col natio serto

e vi scolpisci ne’ tuoi fasti il nome.

Simpatia e ammirazione che può culminare nel ritratto squisito e manierato della Teotochi-Albrizzi (v. in Ritratti, a cura di T. Bozza, Roma, 1946, pp. 37-38: la prima edizione fu del 1807), veramente illuminante per l’animo foscoliano piú di tante cronache minute e pettegole: un ritratto romantico e neoclassico insieme di rara efficacia, prima di quelli piú tesi ed eroici del Maggini e dei magginiani, prima di quelli caricaturali e malevoli del Tommaseo e di altri critici avversi. E cosí vivo per noi in offerte di una simpatia contemporanea omogenea in qualche modo allo stesso gusto foscoliano, anche se naturalmente atteggiate in una certa leziosità e in amore di rilievo delle punte piú interessanti da un punto di vista femminile.

Chi è colui? richiedi al tuo vicino. Nol sa. Tu smanioso corri a me, e mel domandi. Or bene; dal volto dunque, e dall’aspetto ne sai quanto basta; volto ed aspetto che ti eccitano a ricercarne, e a conoscerne l’animo e l’ingegno. L’animo è caldo, forte, disprezzatore della fortuna, e della morte. L’ingegno è fervido, rapido, nutrito di sublimi e forti idee; semi eccellenti in eccellente terreno coltivati e cresciuti. Grato alla fortuna avara, compiacesi di non esser ricco, amando meglio esserlo di quelle virtú, che esercitate dalla ricchezza quasi piú virtudi non sono. Pietoso, generoso, riconoscente, pare un rozzo selvaggio a’ filosofi de’ nostri dí. Libertà, indipendenza sono gli idoli dell’anima sua. Si strapperebbe il cuore dal petto, se liberissimi non gli paressero i moti tutti del suo cuore. Questa dolce illusione lo consola, e quasi rugiada rinfresca la troppo bollente anima sua. Alla pietà filiale, all’amistà fraterna, all’imperioso amore concede talvolta un filo, ond’essere ritenuto; ma filo lungo, debole, mal sicuro contro l’impetuoso torrente di piú maschie passioni. Ama la solitudine profonda; ivi meglio dispiega tutta la forza di quel ferace ingegno, che nei suoi scritti trasfonde... La sua vasta memoria è cera nel ricevere, marmo nel ritenere. Animo fervido ma sincero, come lo specchio, che non illude né inganna. Intollerante per riflessione piú che per natura. Delle cose patrie adoratore, oltre il giusto disprezzatore delle straniere. Talora parlatore felicissimo e facondo e talora muto di voce e di persona. Pare che la esistenza non gli sia cara, se non perché ne può disporre a suo talento; errore altrettanto dolce al suo cuore quanto amaro a quello degli amici suoi.

Ma a questa simpatia e ammirazione corrisposero un odio e un disprezzo che non conobbero altri poeti: dagli attacchi del Monti («io farò ballare lui sulla polvere dei suoi Sepolcri») a quelli del Lampredi sul «Poligrafo» e nella Lettera Apologetica in cui il Foscolo viene presentato come corifeo del romanticismo nella sua «parte meno sana».

Ma veri giudizi non passionali intorno all’Ortis e ai Sepolcri (le due opere che veramente attrassero l’attenzione dei contemporanei insieme al Commento alla Chioma di Berenice e all’Orazione inaugurale) furono quelli dei vecchi decani della letteratura italiana, Bettinelli e Cesarotti. Giudizi che possono interessarci perché rappresentano bene lo stato di incertezza, di divisa ammirazione dei letterati piú validi del tempo di fronte all’opera foscoliana, troppo romantica in una certa direzione, troppo neoclassica e “greca” in un’altra, oltreché troppo decisa ed aspra nei confronti del comodo tradizionalismo ideologico o di quei compromessi cosí italiani fra credenze tradizionali, razionalismo illuministico depurato dai suoi veleni piú intensi e spiritualismo romantico.

Il Cesarotti amico e consigliere del giovane Foscolo reagí energicamente all’Ortis (mentre accettava l’Orazione a Buonaparte a mezza bocca, per timore cortigiano e per l’oscurità e compendiosità dello stile), l’opera in cui il suo preromanticismo saggio e letterario veniva superato d’un balzo dal profondo di una decisa posizione spirituale e lirica.

Nella lettura dell’Ortis, dice in una lettera dell’11 dicembre 1802 (Epistolario, ed. Naz., I, 1949, p. 167), «ho bisogno di respirare tratto tratto, per non restare oppresso dal cumulo d’idee, di fantasmi e d’affetti coi quali mi hai posto assedio al cuore ed allo spirito»; e piú decisamente aggiunge in una seconda lettera: «Del tuo Ortis non ho voglia di parlarne. Esso mi desta compassione, ammirazione e ribrezzo. Non dirò che due parole. Questa è un’opera scritta da un Genio in un accesso di febbre maligna, d’una sublimità micidiale e d’una eccellenza venefica. Veggo purtroppo che è l’opera del tuo cuore...» (Epistolario, I, p. 180).

E al suo fedele Barbieri, il preromantico “italiano” dichiarava: «Egli ha ben ragione di dire che lo scrisse col suo sangue. Io mi guarderò bene dal fartelo leggere; perché è fatto per attaccare una malattia d’atrabile sentimentale da terminare nel tragico. Io lo ammiro e lo compiango. Ma parlando solo dell’opera ella è tale che farebbe il piú grande entusiasmo se si credesse d’un oltramontano. Ella ricorda Werther, ma può farlo anche dimenticare...» (Cesarotti, Opere, Pisa 1813, vol. XXXIX, p. 4).

Parole molto significative per il Cesarotti nel suo bisogno di distinguere il preromanticismo “oltremontano”, in cui era lecita ogni audacia, da quello addomesticato italiano a cui certo conveniva meglio un Pindemonte o un Bertola che non il Foscolo dell’Ortis.

La sintesi foscoliana avveniva in una zona di maggiore profondità sia nella direzione neoclassica che in quella preromantica.

Ma se questo giudizio sull’Ortis ne apre una valutazione tradizionale sul primo ottocento moralistico, pauroso e magari purista, piú completa e indicativa è la presa di posizione del vecchio Bettinelli.

Il vecchio Bettinelli, il «Nestore» della letteratura italiana allora in fase di aggiustamento neoclassico, dopo le sue avventure illuministiche e preromantiche, sentí l’Ortis con una inevitabile meraviglia («piantiamo aranci e nascono limoni»!) e cercò di prenderlo e ridarlo come prova di stile un po’ come si poteva fare con molti preromantici di maniera, pronti a lasciare i toni lugubri imparati nei testi stranieri per allegre imitazioni oraziane, per canzonette vittorelliane, tanto piú che il giovane Foscolo aveva dato in precedenza esempi di una simile versatilità. Cosí, in Opere, I, p. 177, il Bettinelli parla di bello stile, di «forte immaginazione ne’ quadri» pur non approvandone il contenuto e, piú attento in genere al fatto artistico e romanzesco, postula per il primo un difetto molto discusso nell’Ottocento: l’eccessiva tensione iniziale, la mancanza di catastrofe veramente interessante sí che il lettore si stanca e «diviene critico e talor nemico del libro». E piú disambientato si trovò di fronte ai Sepolcri che, apparentemente nel tono dei vecchi sermoni in sciolti cari al Bettinelli e sopportabili a lui negli esempi misurati del Pindemonte, portavano una poesia di ritmo inaudito, di immagini di una densità straordinaria e di una cosí difficile verificabilità razionalistica. Si noti subito che i Sepolcri, che il Risorgimento pieno sentí come il capolavoro piú alto del secolo, nel primo Ottocento vennero accettati sempre con esitazioni e limitazioni che trovano la dichiarazione piú umile ed onesta nel vecchio gesuita mantovano.

«L’autore dei Sepolcri ha troppo ingegno per me, e quindi ho dovuto leggerlo e rileggerlo con applicazione, perch’ei si leva a un’alta sfera di grandi pensieri e di frasi tutte sue. Vincenzo Monti, passando per Mantova, me li rilesse; entusiasta ne’ piú bei passi, e profondo scrutatore di tante bellezze, assentiva alle mie osservazioni sull’oscurità» (Foscolo, Opere, I, p. 437), e al Foscolo stesso: «Avete troppo ingegno per me, onde mi riesce oscuro lo stile di questo Carme, benché da me letto e riletto con applicazione. Altri piú acuti l’intenderanno, ma niuno quanto voi levato a sí alta sfera di gran pensieri e di frasi tutte vostre e poco, credetemi, chiare per noi mediocri. Tale mi reputo in buona coscienza. Ma v’ammiro in tutto gran poeta» (Epistolario, I, p. 80).

Secondo il Pieri (Opere, I, p. 173) il Bettinelli si sarebbe poi ancor piú ricreduto sdegnandosi delle ingiurie del Guillon, ma, se l’autore dell’Entusiasmo poteva sospendere il suo giudizio di buon senso di fronte a «tanto spirito e furor poetico», piú tipicamente sue e del gusto contemporaneo restano le osservazioni sull’oscurità, rese esplicite in una lettera all’Arrivabene riportata nell’opuscolo di B. Soldati (I Sepolcri giudicati dal Bettinelli e dal Monti, Perugia 1911) e nell’articolo di D. Bianchini su «Il Baretti» del 12 febbraio 1874 (Osservazioni dell’abate Bettinelli sui Sepolcri): «È forse il sonno ecc. ecc. L’interrogazione è tutta in aria, né si sa chi interroghi e che risponda e par che l’ombra dei cipressi e l’urne sian malgradite dal poeta, mentre consolano tutti gli altri, e quel “confortare di pianto” è pur in aria...».

Il tema dell’oscurità, del lirismo astruso senza passaggi graduati (ed è strano che questi rimproveri venissero da ammiratori di Pindaro: ma del Pindaro del Parini e non oltre!), che viene affermato dal decano dei letterati italiani, si fonde con l’accusa dello spiritualismo cattolico di incredulità e di ateismo, come d’altra parte l’accusa di eccessivo colore lugubre si fonde con quella di un’antichità non piú adatta a parlare ai contemporanei.

Mescolanza di posizioni neoclassiche e romantiche che isolano bene l’altezza dei Sepolcri sul piú alto discrimine dei due versanti, troppo romantico o troppo neoclassico per i piú moderati neoclassici innamorati della sonorità montiana e per i romantici ancora indecisi. Solo il romanticismo pieno accoglierà con entusiasmo i Sepolcri, anche se non riuscirà a capirli nella loro vera vita poetica sopravvalutandone la spinta pragmatica risorgimentale, l’ispirazione civile, l’eloquenza patriottica.

Nel gusto degli anni subito seguenti alla pubblicazione dei Sepolcri, questi vennero presentati insieme all’Epistola omonima del Pindemonte e all’Epistola del Torti.

La vicinanza dei tre autori (e presto si aggiungerà un brano del Monti dalla Mascheroniana) era una offerta al gusto neoclassico di posizioni poetiche da paragonare a poeti del mondo antico e, se per Pindemonte si citava Tibullo, per Torti Orazio, per Monti Virgilio, saliva già fin da quegli anni l’indicazione di Pindaro per il Foscolo, sia come lode, sia come rimprovero per la sua oscura sublimità, mentre l’insorgente spiritualismo e il conformismo tradizionale condannavano le mancanze dei Sepolcri da un punto di vista religioso.

Cosí il Torti, affascinato dallo stile foscoliano fino a tentare di riecheggiarlo (e qualcosa di simile accadde al Pindemonte), precisava:

Sublime, austero ingegno, a suo talento

gracchi la turba; di sovrano poeta

debito serto avrai. Sol ti ricordi,

che uomo ad uomini parli; e fuggir gli altri

su quel che in tuo pensier tu ti creasti

piú che umano modello, indarno speri.

E anco aggiunger vorrei: Perché sí eccelso,

e amator sempre d’ogni eccelsa cosa,

delle umane speranze oltre alla tomba

spingere il volo non curasti? Indarno

mille di ciò con la feconda mente

sai cumular difese; io non t’assolvo.

Pon mente, o Delio, e dalle due vedrai

prime fonti, ch’io dissi, alla parola

scender vizio talor, come al concetto,

e all’ordin pur che in suo cammin lo scorge.

Ordine han retto entrambi, e qual con molto

contender di pensieri, alfin lo elegge,

e il serba ognor che di sua mente è donno:

ma tutta d’Ugo in occultarlo è l’arte,

sí che a stento il discopri. Aperto e nudo

l’ama Ippolito sempre: e, qual fors’anco

a pedestre sermon laude non fora,

delle sentenze sue rado, o non mai

si attenta anello trascurar, dal primo

all’obbietto secondo, e quindi innanzi

di grado in grado trapassando...

E il Pindemonte, che nei Sepolcri in risposta ad Ugo impiantava tutto il suo discorso lirico su di una intensa certezza religiosa dell’immortalità, con toni da romantico alla Chateaubriand, rimproverava pure l’amico di eccessivo classicismo:

antica l’arte

onde vibri il tuo stral, ma non antico

sia l’oggetto in cui miri[1].

e di oscurità:

Perché talor con la Febea favella

sí ti nascondi, ch’io ti cerco indarno?

E all’“ermetismo” foscoliano erano evidenti allusioni anche nel suo Sermone ironico In lode della oscurità della Poesia:

Un grave

peccato è in te, tutto s’intende: parte

non v’è alcuna, cui quella intorno vada

caligin sacra, che sí grande acquista

ai versi incomprensibili virtude!...

Cingiti d’oscurezza e Giove imita

che le folgori sue d’infra un’augusta

notte di nembi, ove s’asconde avvinta...

Che era il chiaro anticipo dell’iroso giudizio del purista neoclassico Giordani: «fumoso enigma», e ben mostrava la diversità essenziale fra una poesia ornamentale e discorsiva e quella foscoliana intensa e nutrita di fermenti ideali estremi e originali.

Cosí in un articolo del 4 dicembre 1807 nel «Giornale Italiano» il Buccelleni scriveva:

Pindemonte per amore di spontaneità e di chiarezza cade talvolta nel prosaico; ed il signor Foscolo per amore di altezza e di brevità urta talora nell’oscuro e nello strano. Nel primo trovasi alcuna negligenza e benché di rado assai, qualche languore; nell’altro l’olio di lucerna e soverchia tensione. Il Pindemonte è nella sua verseggiatura fluido e delicato; e di tratto in tratto uniforme. Ugo Foscolo è rapido, sonante e mirabilmente variato nei toni e spesso di una varietà che scuote e non diletta.

Sono da calcolare, in questa prima fase della critica foscoliana, le pagine sensibili dedicate al Foscolo da Giuseppe Montani, collaboratore della «Antologia» e specie di lettor sottile ottocentesco[2], mosso da un forte affetto per il Foscolo (il «povero Ugo» del necrologio sull’«Antologia» del 1827) e da un gusto dichiarato, «il piacere delle citazioni» (marzo 1825), che gli permetteva di valutare positivamente la Notizia di Didimo Chierico con intuizione felice e feconda («La bellissima prosa in ogni riguardo a me pare nella notizia di Didimo Chierico aggiunta alla versione già detta, e specchio d’una seconda epoca nella vita del Foscolo», recensione alle Operette varie nel fascicolo di agosto 1829, p. 72) e di accennare allo sviluppo della prosa foscoliana dopo l’Ortis. E dello stesso Ortis porta la sua esigenza stilistica in mezzo alla sua esigenza risorgimentale («Ma dell’Ortis, in particolare, non dubiterei d’asserire, che anch’esso, almeno relativamente al paese in cui fu scritto, è l’espressione vera di un’epoca singolarissima, né lo è solo per le idee e per gli affetti, ma anche per lo stile. Ché saria ben poco avveduto chi non scorgesse in questo uno sforzo, forse malsicuro, ma originale di nuova nazionalità», p. 72), mentre nell’Orazione inaugurale cerca una prima parte piú metafisica e astrusa e una seconda parte «splendente d’immagini e di idee, calda di nobili affetti» (p. 70) e conclude anche lui per la vittoria della lirica, dell’ispirazione lirica: «Se mai ce ne nascesse dubbio la Ricciarda ha dovuto chiarirci ch’ei non era fatto per un severo piano tragico e che il dialogo, le sentenze, il verso, tutto naturalmente sotto la sua penna si volgeva alla lirica». Anche se di fronte alle poesie giovanili edite nel 1831 a Lugano il Montani non si sforza di cercarvi i primi segni del poeta, sa legare con mano sicura lo sviluppo del Foscolo dai Sepolcri in poi nel nesso Viaggio sentimentale, Grazie. Mentre sul piano generale, sapendo apprezzare lo stilista e il letterato (ne rivela l’amore delle «inserzioni letterarie nei suoi versi, siccome gemme in bel ricamo d’oro»), sa rilevare l’inutilità delle accuse moralistiche contro la vita del Foscolo, la sua singolare sorte di essere giudicata con insolita severità.

«Ma tutto nel Foscolo doveva essere giudicato severissimamente... Pur è sí tristo fermarsi ai difetti massimo ove risplendono, come nel Foscolo, insigni virtú...» (p. 75). «Un uomo, a cui, per dir tutto in una parola, molto deve della sua conservata dignità l’italiana letteratura» (p. 76 dal fascicolo agosto 1829).

2. La polemica risorgimentale

L’avvio alla polemica sul Foscolo “uomo e cittadino”, cioè sulla validità della sua figura esemplare e risorgimentale, sulla coerenza e sincerità della sua personalità e del nutrimento della sua poesia, è dato dal libro di Giuseppe Pecchio Vita di Ugo Foscolo, uscito a Lugano (Ruggia) nel 1830.

Libro scritto con un giusto compromesso fra agio saggistico, impegno critico e una duplice attenzione quasi romanzesca di ammirazione stendhaliana e di satira tommaseana alla vita del grand’uomo nella sua energia sincera e nelle sue pose retoriche. «Non è questo mio lavoro, ripeto, che l’ufficio pietoso di un esule verso di un esule... lasciamo i panegirici pei santi e pei re. Mio intento è di trattare Ugo Foscolo da uomo e di dirne schiettamente il bene e il male, secondo parmi che siasi meritato» (p. 8). E certo se questa premessa di obbiettività è in parte annullata dal desiderio della bella pagina, del paragone scherzoso, della caricatura piú che della volontaria demolizione (anche se a un certo punto parlando del poeta un certo livore può trasparire dalla dichiarazione che per lui il Foscolo non era un grand’uomo), anche le ire dei romantici furono esagerate e spiegabili solo nella formazione del culto risorgimentale dell’eroe-vate Foscolo che trova la sua precisazione nelle pagine e nelle cure del Mazzini.

E certa angustia e ingenerosità nei giudizi particolari e a volte nei veri e propri pettegolezzi è compensata dalla vivacità di altri momenti, da intuizioni felicissime sull’uomo energico e generoso, messo in rilievo a volte persino in aneddoti narrati con punte di malignità, come in quello delle scudisciate di Graham e del successivo duello.

Si recarono sul campo. Toccò al signor Graham a tirare il primo. Foscolo sostenne intrepidamente il fuoco, e alla sua volta invece di rispondere sparò in aria il suo colpo, dicendo che non si degnava di trarre su simili persone... Gli amici di Foscolo si divertivano in appresso a sue spese, dicendo che per riparare al mal delle staffilate si era esposto ad essere ucciso senza alcun compenso. Ma il compenso di Foscolo fu il mostrare che non temeva né il suo avversario né la morte... (pp. 214-215).

Oppure il ritratto del giuocatore e dello studioso:

La palestra di Foscolo erano il teatro e il tavoliere: Dopo aver meditato sugli scoliasti di Omero, su gl’interpreti di Callimaco, su Tacito, ei prorompeva da casa verso mezzanotte per tentare la sorte al giuoco nel ridotto della Scala. Veemente in tutto, cercava pure di violentare la fortuna. Con un pugno di luigi andava ad attaccare al Faraone un monte di oro. Appunto come talora un branco di soldati si tenta di prendere d’assalto una fortezza. La fortuna gli sorrise alcuna volta. Talvolta se ne ritornò in casa con un mucchio d’oro. Il giorno seguente si alzava un nuovo sipario per la sua vita. Commetteva abiti, comperava cavalli, cangiava abitazione, e si alloggiava in un dorato appartamento. Ma tutto questo lusso spariva poi come un sogno. La fortuna gli volgeva il tergo, e il Faraone riprendeva ben tosto quel che gli aveva donato. Non importa. Vendeva ogni cosa, si ritirava in un cantuccio, e si immergeva nello studio senza piú uscir di casa per molti giorni (p. 117).

Da quelle pagine, anche nella loro volontà di ridicolo forse voluto intonare all’humour inglese, l’appassionato Foscolo, pur se sfiora a volte la misura dell’istrione e del bizzarro, si staglia potentemente proprio nella sua irrequieta, intensa vitalità senza mediocrità, nella sua tensione a volte persino eccessiva, ma necessaria alla sua poesia.

In quelle brevi eruzioni (amorose) ei diveniva mutolo, accigliato, cupo, guardando con pupille sbarrate, immote come quelle di un frenetico; e se pur rompeva quella terribile taciturnità non era che per brontolare alcune sentenze sul suicidio, o per ripetere le cento volte a guisa di un rosario alcuni versi allusivi al suo stato... (p. 60).

Velato nei suoi giudizi estetici dal suo anticlassicismo («Ma è pur un peccato, che questa bellissima ode sia stata scritta in tempi che s’incomincia ad essere stanchi della mitologia alla nausea», dice dell’ode a L. Pallavicini), dalla sua ammirazione un po’ snobistica per la “poesia settentrionale”, il Pecchio non poteva capire la particolare posizione poetica foscoliana nella sua esigenza di alto stile, di identificazione, di interesse e novità con stile assoluto e semmai lo scambiava con un vuoto calligrafismo classicheggiante («Ed alla fine questo idoleggiato stile non è che un gergo nazionale, di cui gli stranieri poco o nulla capiscono. Eppure Foscolo stesso n’era tanto infatuato che soleva ripetere, che tutto era stile in poesia, dappoiché – secondo lui – tutto era stato detto e inventato. Assurdissimo anatema: si può dire che fosse chiuso ogni campo all’invenzione nell’età dei Byron, dei Walter Scott o dei Goethe?»; p. 188), sicché ben poco ci dice l’ultimo capitolo di giudizi sul Foscolo autore, mentre qua e là compaiono di sfuggita notevoli intuizioni («lo stile stesso dell’Alfieri, uno dei primi riformatori, nerboruto e conciso peccava nel secco e nell’aspro. Foscolo seppe riunire alla forza e alla concisione la flessibilità, la pastosità, lo splendore. Il primo è Mantegna, il secondo è Tiziano. Foscolo merita tanto piú di essere paragonato a Tiziano che come questi seppe introdurre nella pittura il paesaggio, che tanto le accresce di varietà e ornamento, cosí Foscolo per il primo seppe tessere col drammatico il campestre, e dare al fondo del quadro la freschezza, l’innocenza, la bellezza della natura»; p. 95).

Ma, ripeto, l’importanza della Vita del Pecchi consiste soprattutto nell’avvio alla polemica risorgimentale sul Foscolo ed offre chiari spunti a quella idealizzazione del poeta in figura esemplare che pure in altre pagine limitava ed ironizzava.

Cosí anche circa il punto piú attaccato della vita foscoliana, il periodo precedente la fuga e il volontario esilio, il Pecchio, mentre rileva la relazione del Foscolo con gli austriaci e riferisce con orgoglio un suo ipotetico intervento proprio il giorno precedente la partenza clandestina, finisce però per rendere altissimo omaggio all’alta coscienza foscoliana e lascia persino aperto uno spiraglio di giustificazione diretta:

O ch’egli fosse complice della congiura dei militari appunto in que’ giorni scoperta, e fosse per lui urgente il porsi in salvo; o quella mia risposta senza metafora gli avesse spalancato dinanzi l’abisso dell’infamia, fatto si è che dopo tante traversie e vicende, senza amici, senza beni, non ricco altro che di fama, ebbe il coraggio di cominciar di nuovo la vita, ramingo per l’Europa già piena a quel tempo di addolorati ed infelici (pp. 194-195).

E le pagine gonfie e atteggiate in cui parla della morte del Foscolo, confrontata a quella del Monti, sono bene in linea con l’esaltazione che dell’uomo impavido e sostanzialmente coerente fecero altri romantici.

Se fosse morto con minor coraggio e stoicismo sarebbesi potuto tacciare di rodomontata in vita quel suo tanto disprezzare ed invocar che faceva ad ogni ora la morte. Il suo coraggio non venne meno; e «la mort qui est sans doute la plus remarquable action de la vie humaine» fu certamente una delle sue piú lodevoli azioni. Tal moria qual visse...

... Monti fluttuante sempre nelle sue opinioni politiche, disertore di tutti i partiti, esercitando la divina arte del bardo, come una professione mercenaria, muore in un chiostro di Monza, qual ribaldo del Medio Evo, tremante, agitato da fantasmi e rimorsi come una pinzocchera...

... Foscolo, inflessibile, rigido, indifferente al premio o alle minacce, tutta la sua vita lodatore solo della virtú, muore sotto un cielo straniero, in braccio a pochi amici, con quella stessa dignità che conservò assai sempre ne’ suoi scritti (p. 254).

Pagine oratorie e tendenziose, ma tali da contribuire proprio a quel culto risorgimentale che nel suo libro trovava un pretesto di affermazione polemica.

Alla Vita del Pecchio rispose in una lettera generosa e non molto intelligente il fratello Giulio nella «Biblioteca Italiana» (aprile 1835), che, se colpí bene in generale il gusto pecchiano di creare pagine umoristiche, esagerò nel considerare il libro una piena negazione di ogni valore del fratello (volle «scomporre con rara maestria la parte brutta contenuta in ogni mortale per farla poi osservare col microscopio de’ presenti e de’ futuri»; p. 282), assumendosi con pietà fraterna l’impresa di smentire ogni particolare negativo fino a negare il suicidio di Giovanni (egli stesso poco dopo suicida!), mentre era piuttosto da rilevare la strana “situazione” in cui la critica si metteva con il Pecchio, nella richiesta di una virtú foscoliana senza la minima macchia o debolezza che era il riflesso delle polemiche già da lui sostenute e la conseguenza di un amore e di un culto che mentre cresceva era in molti esigente, contrastato in loro stessi da un “odi et amo” troppo in funzione di sentimenti ed ideologie.

Poteva bastare un superamento delle polemiche in vita come nella nota della «Révue enciclopédique de Paris» (ottobre 1827: «Cet homme célébre eut à se reprocher quelques desordres dans sa vie privée; mais ses talens et ses malheurs sont des titres suffisans pour qu’on les pardonne à sa mémoire») o la romantica pietà per il «povero Ugo» ben rappresentata nel necrologio del Montani («The poor Edgar», si dirà piú tardi per Poe), assecondando i miti stessi autobiografici del Foscolo: «ricco di vizi e di virtú» o «esule ramingo»; oppure si poteva cercare un distacco dalla cronaca per la storia, che il romanticismo e poi il positivismo non conobbero preferendo troppo spesso la critica pettegola o il mito incontrollato.

Quest’ultima tendenza esercitata già con l’Alfieri ed eccitata dalla polemica andò prevalendo dopo la Vita del Pecchio e testimonianza può esserne ad esempio il libro di Carlo Gemelli (Della vita e delle opere di Ugo Foscolo, Firenze, 1849), scritto in esilio dal 1839 in poi, e aperto appunto da una dichiarazione contro il Pecchio «voce irriverente ed ingrata che sotto il velame sacro dell’amistà venne a turbare il riposo delle tranquille sue ceneri neglette oramai...» (p. 2) e dalla volontà di riabilitazione («Giusta opera quindi reputiamo noi e degna di anima italiana, il rivendicar l’offesa memoria di uno dei piú nobili scrittori di questa età nostra») di uno della schiera «d’illustri sfortunati».

E tutto il libro è costruito con linguaggio ortisiano e riempito di episodi inverosimili e gonfi, atteggiati nello stile del giovane plutarchiano, e ragioni sentimentali e romantiche avviano una preferenza ai Sepolcri e Ortis di fronte a Odi e Grazie (il suo classicismo è accettato con riserva come scuola di buono stile, ma anche con limite di «pregiudizio»), rilevando soprattutto il fine civile («Or tale è il piano dell’intero lavoro del Foscolo, in cui par che l’elemento civile formi tutta la sostanza poetica e il vero fine dell’autore»; p. 68), e giustificando la accusata dualità di motivi del suicidio dell’Ortis «amore e patria» nella romantica unità di tensione patriottica e amorosa di anime sublimi che sfuggon il tedium vitae in quelle due illusioni di simili e condizionantesi radici e trovando nell’eccesso di eloquenza turbata e irrequieta dell’Ortis una ragione di coerenza decisamente anticlassicistica: «lo splendore e la serenità dello stile dove l’anima è torbida, irrequieta e convulsa, sarebbero difetti men che gravi, imperdonabili» (p. 38).

E le traduzioni omerica e sterniana (per la prima egli tenta un confronto minuto con testo greco a fronte della versione foscoliana e montiana) sono giudicate altissime nella loro capacità di aver ricreato «quella fiamma che scaldando il cuore e la mente, fa disparire del tutto il traduttore, e non frappone nessuna distinzione tra l’originale e la copia» (p. 55). Ma tutto era in funzione del poeta-grande uomo, e patriota e martire, sí che la conclusione era un appello che risuona per anni ed anni da tutta questa critica prevalentemente agiografica.

Italiani! Ugo Foscolo merita una pietra, merita una parola, merita che l’Italia onori finalmente il nome e le ceneri di codesto suo figliuolo (p. 164).

Ma soprattutto Giuseppe Mazzini indirizzò coscientemente l’amore e l’ammirazione per il Foscolo verso una precisa glorificazione risorgimentale in funzione di un mito da offrire alla gioventú italiana. Proprio l’uomo, il cittadino e il poeta e un certo lato del suo pensiero egli voleva valorizzare, puntando proprio su di una “vita esemplare” che per tanti anni vagheggiò di scrivere raccogliendo materiale, corrispondendo con la “Donna Gentile”, e in cui avrebbe voluto glorificare un esempio vivo della sua teoria romantica del Genio e offrire un quadro della storia italiana nel suo momento prerisorgimentale («coll’intendimento di alternare ad ogni periodo della vita del Foscolo il quadro delle vicende italiane in quei tempi di libertà piú sentita e presentita che intesa, e che l’essere libertà forestiera soffocò», Lettere inedite di G. Mazzini ad alcuni dei suoi compagni di esilio, Torino 1898, p. 190).

Nel Commento foscoliano alla Divina Commedia che il Mazzini pubblicò nel 1842 (e che ben corrispondeva alla sua avversione anticuriale, al suo senso religioso della poesia e al suo culto di Dante profeta del Risorgimento) e nella Prefazione agli scritti politici inediti di Ugo Foscolo, edito da lui a Lugano nel 1844 (ora in Scritti editi e inediti, vol. XXIX, Imola 1919), rivelava il suo fine altamente pedagogico di glorificare il genio contro i pettegolezzi dei mediocri o dei malevoli, in merito «dell’unità potente non mai tradita, dell’anima sua», e di proporlo ai giovani come esempio di uomo.

«L’affetto riverente posto dagli uomini negli intelletti potenti e virtuosi – il culto degli eroi, come direbbe Carlyle – frutta solo credenti all’Umanità: l’adorazione dell’idea nuda, metafisica, astratta non dà che filosofi. E oggi che alla gioventú d’Italia manca non l’idea, ma la fede... è gioia poterle dire: ecco un’anima incontaminata... l’uomo che ammirate scrittore è degno del vostro amore però ch’ei mantenne tra le sciagure, l’esilio e la povertà, la costanza dei principî, l’indipendenza delle opinioni e l’affetto alla patria vostra. Imitatelo e confortatelo. Una opinione serpeggia fra voi che dice bella e santa la verità, ma tristi gli uomini e sogno il pensiero di prepararle trionfi qui sulla terra. Respingete, o giovani, quella opinione...» (p. 164). Contro quell’opinione scettica Mazzini scriveva della figura del Foscolo come prova dell’idea incarnata, della virtú impermeata in un’anima che fu «delle migliori che mai scendessero sulla terra in un periodo di crisi morale e tra una gente appestata, senza però avvedersene, d’egoismo e di menzogne sociali» (p. 165).

Con una distinzione essenziale, il mito foscoliano veniva agganciato all’anima foscoliana, alla sua vita intima, alla sua pratica morale, alla sua poesia, piú che al pensiero di origine settecentesca anche se nutrito di vichianesimo (poco rilevato dal forte, ma spesso generico Mazzini) contrastante con l’ottimismo idealistico romantico. «Né io venerando contemplo in Foscolo il pensatore, ma l’uomo» (p. 276).

Lo dissi poc’anzi, piú che emancipato, emancipatore e il segreto de’ meriti ch’egli ebbe e dell’influenza esercitata da lui nella gioventú d’Italia, sta infatti non tanto nell’idea ch’egli introdusse nella patria letteratura, quanto nell’avere egli insegnato la necessità d’un’idea direttrice fondamentale e la indipendenza da ogni autorità usurpata che deve avviarvi alla ricerca, e il culto attivo, incessante, sincero, con che dobbiamo, dopo averla raggiunta venerarla e immedesimarle colla nostra vita... (p. 176).

Foscolo diventava «vital nutrimento», e quasi il dantesco Virgilio «come quei che va di notte / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte».

Giudizi estremamente romantici che riducono anche il pensiero foscoliano a passione e tendono cosí a salvarne per lo spiritualismo mazziniano la radice buona: «Le opinioni scettiche e disperate che s’incontrano nelle sue pagine prorompono subitanee, come getti di passione impaziente, non come frutto di sistema filosofico meditato lungamente e logicamente» (p. 177).

Avvertita questa riduzione a passione e questa limitazione dell’importanza del pensiero settecentesco e del classicismo foscoliano, la critica del Mazzini non portava seri contributi diretti alla comprensione della poesia foscoliana, ma indirettamente rinsaldava potentemente, al di là delle polemiche biografiche, l’impressione della genialità e grandezza del Foscolo e della radice profonda della sua poesia, della sua qualità originaria di poeta e di “vate”, anche se con ciò si avviava l’interpretazione del “poeta civile” che tanto ha pesato sulla valutazione del Foscolo, poeta europeo e altissimo lirico. Ma certamente questa era la base vitale da cui poteva nascere la critica desanctisiana, l’accettazione ineliminabile di simpatia e di adorazione su cui nasceva il giudizio dell’Ottocento romantico.

Accanto a questa corrente che ha la sua soluzione critica e il suo superamento nel De Sanctis (che pure avvertí e usò gli apprezzamenti degli avversari) si svolge quella a tendenza moralistica e cattolica che arriva fino al Cantú e in parte al Bonghi e che si inizia con lo Scalvini.

Negli scritti di G. Scalvini (specie nello Sciocchezzaio) non mancano certo spunti acutissimi e capaci di indicare linee di indagine. Ma il preciso riferimento ad un canone di giudizio moralistico e confessionale vizia e deforma giudizi inizialmente accettabili. Cosí la osservazione della complessità e della lotta interna dell’animo foscoliano («Ugo Foscolo era dotato di vigorose facoltà, ma discordi, come son tutte quelle che, piú o meno deboli o forti, noi uomini portiamo con noi nel mondo») poteva essere utile reazione all’eccessiva unificazione e giustificazione del Mazzini, ma poi lo Scalvini seguita risolvendo in frivolezza la serietà e problematicità foscoliana.

Egli le abbandonò alla loro lotta, spensierato di che ne sarebbe riuscito. Pareva quasi non considerare che la guerra si faceva in lui, e che dall’esito di essa egli sarebbe riuscito felice o misero, buono, contento di sé, degno di ammirazione, ovvero non dico tristo, ma rigido, arido, scontento di sé e quindi degli uomini. Pareva contentarsi d’essere uomo di lettere: ma non pensò che prima era uomo, che l’uomo deve primamente aver cura di sé e della sua natura, che egli non è nato per passare sopra la terra col pensiero fuori di sé intento a gareggiare di meriti letterari coi suoi contemporanei e intento a cogliere solo lode dai suoi scritti... (Foscolo, Manzoni, Goethe, Torino 1948, p. 344).

E cosí nell’esame dell’Ortis il giudizio essenziale (che era poi in qualche modo ripresa dei primi giudizi cesarottiani) sulla natura del libro («Non vuolsi dire una storia al lettore; vuolsi scuoterlo, aggirarlo, menarlo a farneticare», p. 62) può avviare un discorso critico su eloquenza e poesia, su elementi pratici e poetici commisti in quella singolare opera foscoliana, ma poi la posizione moralistica porta ad una condanna e ad una indicazione della perniciosità di quella lettura che ci allontana da un esame estetico e storico.

Né l’eccellenza dell’ingegno benché possa far perdonare alcuni errori, scolpa giammai la volontà studiosa a malfare.

Linea moralistica cattolica che ritroviamo nelle pagine che Antonio Rosmini dedicò al Foscolo nei suoi Opuscoli filosofici, nel saggio Della speranza: saggio contro alcuni errori di Ugo Foscolo.

Già nel Saggio sull’Idillio e sulla nuova letteratura italiana (Opuscoli filosofici, Milano 1827) un significativo confronto finale tra Foscolo e Manzoni indicava una linea ben marcata nelle preferenze del Rosmini e della sua concezione eteronoma della poesia.

Si protendano dunque i poeti verso una generazione piú civile della presente e si aiutino quasi con una profetica indagine l’avvenimento; né facciano quanto è da loro l’umano genere, che irrepugnabilmente s’avanza, retrogredire, se pur vogliono risuonar cari, risuonar venerati ai lontani posteri. Cosí di due lirici di questo tempo quale crediamo noi debba colpire di piú diletta armonia il cuore degli avvenire, A. Manzoni, cantore di loro divina religione, dell’autrice di loro somma civiltà; o vero U. Foscolo, del quale una religione turpe governa il carme, una religione di società oscura, crudele, brutale, infelice, sotto il peso delle migliaia d’anni sepolta? Elle non giungono no, le Pimplee, che di loro canti confidano far lieti i deserti, né l’armonia che di mille secoli vincer crede il silenzio, a riscaldare nel petto umano un fuoco spento dalla natura e da Dio. L’immaginazione caverà di quel suono lusinghiero breve dolcezza, ma la natura umana lo spegnerà e dietro al mutar de’ suoi passi, rimarrà svanito e disperso (pp. 405-406).

Ma è nel secondo volume (1828) sulla Speranza che il Rosmini attacca piú decisamente il Foscolo come contrario al secolo e soprattutto contrario allo spiritualismo piú generale.

Egli è quest’alienazione dalla natura materiale o almeno questo bisogno di avvivar tutto ciò che è corporeo con dei legami che lo raggiungono a ciò che è.

E, confondendo il dramma romantico di Foscolo e Leopardi (nel solco piú profondo e meno vistoso di quella grande epoca) con il classicismo e il mito della bellezza greca, puntava decisamente all’esclusione di quella poesia dalla viva storia del secolo XIX.

Dico che questa non è voce della presente società, ma solo quella di un individuo che abbandona i suoi contemporanei per retrogredire fino agli adoratori degli idoli (p. XXVI).

E nel saggio sulla speranza, accusa il Foscolo di aver introdotto e cantato nei Sepolcri il concetto della speranza ingannevole come scuola di disperazione e di nihilismo. Chiuso nel “senso”, il Foscolo non riesce, secondo il Rosmini, a trovare altra felicità che nella speranza già indicata come illusione: vicolo cieco da cui il filosofo propone l’uscita non attraverso un esame della ragione di quella contraddizione, di quel pessimismo e di quel desiderio di vita legati ad una particolare condizione della nostra cultura (Alfieri, Foscolo e poi Leopardi), ma attraverso la precostituita via di una precisa religione che toglie le illusioni della speranza e gli affanni del timore.

Chi portò al massimo la polemica contro il Foscolo e la sua posizione non cattolica e non spiritualistica fu – e con accenti diversi da quelli piú alti e distaccati del Rosmini – il Tommaseo, che riprese le posizioni del filosofo roveretano e quelle dello Scalvini, che era giunto alla dichiarazione «Foscolo aveva sortito un ingegno piuttosto critico che creatore», e le allargò in un attacco generale che non ricusò l’utilizzazione della peggiore aneddotica antifoscoliana.

Già in una lettera del 1834 al De Tipaldo (in Carteggio Tommaseo-Capponi, Bologna 1911, I, p. 535) aveva tracciato con la sua penna abilissima e maligna questo ritratto del Foscolo.

Parliamo del Foscolo. La sventura di lui si fu ch’egli dovette piú e piú volte ricominciare la vita, rottagli dalla fortuna e forse dalla propria follia. L’uomo di Venezia non è certamente l’uomo di Milano; e cosí, nuova vita a Firenze, nuova in Isvizzera, nuova in Londra. Gli studi dissipati e senza grande scopo, e come il suo sistema disperati, disperati di sé: unica mèta, l’orgoglio. Un solo sentimento è in lui retto: l’amore di patria; il resto, viziato dai pregiudizi del secolo decimottavo, e dalla mancanza d’idee. Perché Foscolo non aveva idee; aveva affetti, citazioni, memorie, immagini, frasi; idee, voglio dire, principii, non aveva. La sua teoria della disperazione è un urlo, piú che un sistema. Quindi è che non altro lasciò di sé compiuto e di suo, se non le cose liriche, perché la lirica è il sentimento; e nella lirica stessa tu vedi quanta erudizione, quante citazioni, quante volte il poeta par che si volga al lettore, e gli dica: Vedete, questa frase che mi pare sí bella io l’ho trovata nel tale autore, al libro tale, al verso tale; e quest’altra, al tal altro; e cosí via. Foscolo poteva moltissimo, molto piú del Monti, e piú fece; ma, come il Monti, lasciò in tronco ogni cosa, e morí stanco dell’ingegno, forse piú che dell’animo. Perché l’ingegno non nutrito di meditazione si sfrutta: e quando non si ha altro da dire agli uomini se non che: – Io sono disperato, e voi dovete essere come me; – sottentra ben presto alla meditazione una malattia molto piú tormentosa: la noia. Ond’egli da ultimo s’era dato agli studi filologici e guastò pure questi col far di Dante un profeta, col convertire un sentimento vero in un falso sistema, coll’attribuire a Dante la propria calamità e debolezza. Io parlo severamente del Foscolo perché lo amo, e piango un tale ingegno perduto alla santa causa del vero...

E piú tardi replicando con violenza alla difesa del Mazzini, in due lettere ad A. N. (Intorno a Ugo Foscolo, Prato 1847), il Tommaseo, messe in ridicolo le generose e retoriche espressioni mazziniane («angelo della disperazione», «sacerdote di idee», ecc.), concentrava gli aneddoti circa la incostanza foscoliana sull’episodio della fuga da Milano e mirava a stroncare il centro della sua personalità, che Mazzini e i mazziniani avevano indubbiamente idealizzato in una assurda perfezione.

Ma il quadro piú riassuntivo del giudizio tommaseano – al culmine di una linea polemica ottocentesca – è nel Dizionario di estetica in cui il Foscolo è subito qualificato come «traduttore».

Molto tradusse e bene: Saffo, Anacreonte, Callimaco, Omero, lo Sterne. Imitò lo Sterne e il Goethe nell’Iacopo, nelle tragedie l’Alfieri, nelle liriche greci e latini, nelle orazioni tolse dal Vico, dal Dupuis e da altri francesi, poco, perché di poche e leggere idee fu contento; nelle opere critiche molto citò con acume, ma senza scopo, oltre che bizzarro, e senza fondo di propria dottrina. Forte ingegno e cald’anima, dall’orgoglio intorbidato, straccato. Ira piú che sdegno, passione piú che affetto. Visse e scrisse e pensò impopolare...» (seconda edizione, Milano 1860, II, p. 122).

Rilevato il pessimismo e l’atteggiamento antipopolare del Foscolo, cerca in lui tutto ciò che poteva renderlo odioso allo spiritualismo democratico:

In letteratura ebbe non meno impopolari dottrine e le affibbiò all’Alighieri, poeta, credente, perché grande poeta della nazione, perché credente davvero. Disse l’italiana lingua letteraria, non mai parlata; e sperava che Lorenzo de’ Medici facesse grande la lingua. E alla dottrina rispose in parte la vita; affettò ricchezza, nobiltà, leggiadria, si stropicciò al lezzo dei nobili e degli eleganti; e prima di riconfondersi alla materia (com’egli dice nell’Ortis) si invischiò troppo in quella sudicia materia che chiamano il danaro altrui; e morí d’uggia, di disinganno, di debiti. Morí dopo aver egli medesimo soppresso un libro che narrava le cose di Parga; e senza aver messo un grido di speranza o di compassione alla misera patria sua» (p. 121).

Anche nell’articolo Il Foscolo e il Vico, importantissimo per la linea cattolica del vichianesimo di Vico, Tommaseo con abili citazioni vuol mostrare il tradimento di Vico da parte del Foscolo per recidere quel legame con una tradizione feconda e isolare completamente il poeta in una cultura sorpassata e in una mancanza di succhi ideali coerenti e profondi, per poi lasciare cadere quel fiore artificiale di classicismo e di imitazione letteraria. Lontano da Vico e dalla sua coscienza della provvidenza, il Foscolo è presentato anche come transfuga da una giovanile perfezione di cattolicesimo («Gli anni giovanili del Foscolo paiono religiosi s’egli ergeva cantici al Sole possente fra gli angelici suoni. Ma poi gli angeli sparirono e sorse il Fulminante e il Fato...»), diventa nella mani del Tommaseo un vanesio desideroso di opinioni originali e vivente in contraddizioni continue ed empie. «E non sa se il cielo badi alla terra; ma sa che la Natura è madrigna e si ride di noi; non sa darsi pace con la madre natura» (p. 123: ed evidentemente qui colpiva contemporaneamente Foscolo e Leopardi).

Senza principi e senza coerenza fra le sue espressioni e la sua vita, sí che dopo l’Ortis «bravamente visse» e fu insomma un retore senza sentimento, un calligrafo senz’anima, un antiquato classicista. «Le immagini, lo stile e la passione sono, dic’egli, gli elementi di ogni poesia. E il concetto?» (p. 124). La mitologia empia e vecchia è un’arma di piú contro il Foscolo, tanto piú quanto questi vuole risentirla con afflato religioso e riduce, secondo il Tommaseo, religione e poesia «ad un giuoco». Stroncata l’anima del Foscolo, dimostrati vani ed empi la sua dottrina e il suo classicismo, ribadita la miseria della sua vita con altra frase di malignità insuperabile («Il Foscolo in Inghilterra come il Byron in Grecia, trovò Missolungi. L’anima sua cadde invilita e intristita, non, com’egli del Boccaccio scrisse, dai terrori della religione, ma dalla paura degli sbirri. Quale sia meglio dei due, lascio che dicano i creditori», p. 126), ambigua riesce la lode allo stilista che il Tommaseo non poteva negare, tanto dovendo anche lui proprio alla complessa lingua foscoliana e al suo «culto amoroso della parola».

3. Dal Carrer al De Sanctis

A questa prima epoca della critica foscoliana, cosí presa fra l’erezione della statua risorgimentale, la giustificazione della sua vita integrale contro la biografia aneddotica del Pecchio e la demolizione piú coerente e sottile dei polemisti cattolici, appartiene il saggio piú equilibrato e interessante che l’Ottocento prima del De Sanctis abbia dato sul Foscolo, al di là degli elogi alla Gemelli, alla Mazzini; il saggio premesso da Luigi Carrer alla edizione veneziana del «Gondoliere» (Venezia 1842), di gran lunga la piú completa delle edizioni fin allora apparse e la migliore sino a quella nazionale dell’Orlandini-Mayer di Le Monnier del 1850-1862.

Il Carrer non si ingolfò nella lotta pro o contro Pecchio e limitò le sue considerazioni sul carattere del Foscolo ad una dichiarazione assai equilibrata: «Di vizi ricco e di virtú chiamò se stesso Ugo Foscolo in un sonetto, e poco resta da soggiungere al suo biografo per darne compiuto il ritratto, cosí rispetto agli studi come alla vita, solo che negli studi, piú ancora che nella vita, prevalgono le virtú. Chi però, non contento della brevissima frase, voglia per via di fatti e di riflessioni dichiararne il significato, ha non poca fatica; né so quale altro autore domandi, in chi ne scrive la vita, critica piú liberale, maggiore tranquillità di passione e misura tanto nel biasimare che nella lode» (III della Prefazione). E soggiunge: «né io dissimulerò la mia propensione ad appassionarmi per le virtú di quest’uomo e a scusarne i difetti...». Posizione di equilibrio che bene avvia un esame cosí misurato e prevalentemente indirizzato a valutare il ritratto poetico piú che quello biografico, la storia intima piú che la cronaca delle vicende.

È la storia della poesia foscoliana che sta a cuore al Carrer e non mancano cosí indagini veramente indicative sulla formazione del giovane Foscolo, nella cultura letteraria del tempo («Lesse bensí avidamente gl’incantevoli versi dell’Ossian, ma quella pompa selvaggia non gli fece men vivo l’amore alla brevità e alla precisione alfieriana, e insieme, ciò ch’è piú stupendo, cercò studiosamente la parsimonia e la squisitezza dello stile e del numero pariniano»; p. IX), ed è il primo che si occupi del Piano di studi per illuminare la poetica foscoliana: «il vedere quali temi scegliere di preferenza, quali forme di comporre gli fossero predilette, che autori studiasse, con qual metodo, qual ne portasse giudizio», mentre rilevava già nel Foscolo adolescente il gusto incontentabile del poeta delle Grazie, la premessa e la “materia” delle opere mature. La lettura del Tieste, ben sentito nella sua aria di incubo piú che come azione organicamente drammatica, suggerí al Carrer l’intuizione centrale del lirismo foscoliano, del primato in lui della lirica:

L’anima del Foscolo o la sua ispirazione che dir si voglia, era lirica, lirica in ogni cosa, nelle lettere famigliari, negli articoli di giornale, nelle traduzioni, nelle prefazioni de’ libri, e financo nelle postille del commentatore, la cosa men lirica di questo mondo» (p. XIV).

Affermazione importante e fruttuosa anche se, evidentemente, nella nozione di lirica vi era compreso anche il calore dell’eloquenza lirica, il tono alto assunto dal Foscolo a volte anche con effetti spiacevoli di turgore poco controllato su impressioni piú pacate e modeste. Quel tono teso e magniloquente che nella vita pratica, nella conversazione stupiva e spesso contrariava gli ascoltatori del Foscolo. «Forma ululati invece di parole» pare dicesse di lui la Bandettini.

Ma l’affermazione del Carrer era notevole, appoggiata com’era non ad un generico riconoscimento di grandezza, ma ad una squisita auscultazione del formarsi e dell’esistere della poesia foscoliana. Come quando sempre nel Tieste rileva il formarsi di una musica del verso, un preludio alla varietà e armonia dei Sepolcri e delle Grazie («Di mezzo alla cercata durezza alfieriana il verso ha piú varietà ed armonia, lontano preludio di quella varietà ed armonia che sí maravigliosamente allettano nei Sepolcri e nelle Grazie; la frase è piú splendida, piú poetica; la sintassi meno scabra, e quantunque piú ornato, piú naturale lo stile»; p. XVI).

Di fronte ai Sepolcri il Carrer fa poi cadere la vecchia accusa di oscurità «piú immaginaria che reale» (p. LXIV), ricollegando il carme a tutta l’esperienza difficile del lirico nelle Odi e nei sonetti, alla miracolosa coesistenza di originalità e di letterarietà. Il Carrer non vuol tanto spiegare quanto proporre questo caso difficile per un romantico: «Non avvi, sto per dire, verso del Foscolo che non abbia un qualche riscontro vicino o lontano in altro scrittore, compresi i greci e i latini» (p. LX) – e si documenta abbondantemente – e d’altra parte la sua forza originale è fuori discussione, la sua fisionomia poetica anche troppo calcata. Cita l’Ambrosoli, che aveva detto (Sonetti di ogni secolo, Milano 1834, p. 255): «colto com’era, ricco di affetti cresciuti fin dalla giovinezza con lui, con un animo sempre agitato da gagliarde passioni, con una conoscenza degli uomini e del mondo acquistata dai propri casi, non poté a meno d’imprimere nelle sue poche poesie un carattere che le distingue da quelle di quasi tutti i suoi contemporanei», ma considera quasi un miracolo questa singolare unione di forza personale e di cultura letteraria.

Nei Sepolcri, che per Carrer sono il culmine della poesia foscoliana e in cui classicismo e romanticismo raggiungono la loro fusione piú perfetta, lo colpisce l’abolizione delle similitudini di tipo omerico-montiano e la forza poetica che vi assume la storia nel suo senso piú profondo.

Le poesie di lui devono il loro maggiore effetto alla felice scelta di alcune frasi e parole che fanno immagine da sé sole, o la risvegliano coll’armonia proveniente dalla loro collocazione. Questa vita diffusa per tutto il componimento fece sentir meno al poeta il bisogno di avvivarne in rispettabilità alcune parti col mezzo delle similitudini. Aggiungasi che i suoi concetti hanno sublimità, non tanto dall’essere insoliti e reconditi, quanto dall’essere opportuni e dichiarati con somma franchezza... In cambio delle similitudini, conferiscono allo splendore del carme le allusioni storiche; e questo ancora sembrerebbe convalidare alquanto l’accusa data a quel poeta di troppa dissertatoria. Ma l’accennare dei fatti vi ha somma rapidità, o quando il poeta spazia per essi con agio il fa in modo sí vivo, le circostanze sono scelte cosí a dovere, e tanto la passione vi abbonda che non è che anche in que’ passi non segua il poeta e non dimentichi l’erudito... (p. LXII).

Lambiccati, ma ricchi apprezzamenti che escono dal solito binario risorgimentale, pieni di stimoli e di suggerimenti, come quello della mancanza di similitudini piú classicheggianti, e della forza immaginosa di singole parole.

Storia, calore di passione, vita istintiva del mondo classico («l’uomo antico» di Byron): motivi su cui il Carrer meditava per spiegarsi questa poesia cosí letteraria, cosí neoclassica e insieme cosí viva, cosí moderna ed efficace: soprattutto «calore di passione, primo elemento ed irresistibile d’ogni eletta poesia» (p. LXII), sí che, quando dal capolavoro romantico passa alle Grazie, si mostra non disorientato, ma deciso a limitarne l’importanza non con la scusa piú facile dello loro frammentarietà, ma proprio con un “fin de non recevoir” schiettamente romantico. Aveva cercato di animare la soavità delle Grazie con il calore di un amore soave (quello per la Giovio: «Tanta soavità di passione è naturale che alimentasse versi soavi; e quand’anche trovassi testimonianze in contrario, mi ostinerei a credere composti a quel tempo e nel conflitto fra l’amore e il dovere i piú belli tra i bellissimi delle Grazie»; p. LXXX), aveva sentito la squisita natura di quegli episodi, ma il troppo tormento artistico e la mancanza di una storicità esplicita come nei Sepolcri gli impedivano di andare oltre il riconoscimento di ricchezza formale, di estrema abilità tecnica.

Vediamo che l’arte dello scrittore era fatta piú adulta, piú fini e copiosi gli accorgimenti, ma siccome impiegavansi sopra materia meno arrendevole, l’effetto non veniva uguale alla fatica. Gli studiosi hanno in que’ frammenti un tesoro di pitture evidenti, di nobili sentenze, di bellissimi versi, di frasi mirabili per novità ed efficacia; alcuni luoghi non cedono per passione a qual che sia de’ piú commoventi del Carme, dicasi lo stesso della forza; ma nessuno potrà confessare in coscienza di ricevere una grata impressione dall’intero componimento e nemmeno di saper presumere che una impressione pari a quella prodotta dai Sepolcri potesse sperarsi quand’anche l’Inno avesse avuto l’ultima mano» (p. LXXXIX).

Era ad ogni modo una posizione precisa che legava molto bene con il limite massimo del romanticismo nel suo amore dell’organico, dello storico e del passionale, anche se le prime posizioni del Carrer hanno tale aria di originale freschezza da fare sperare una penetrazione maggiore nella poesia delle Grazie: ma del resto la limitazione del tema civile, il riconoscimento della natura lirica foscoliana, l’attenzione al suo piano letterario, mostrano bene quale posto meriti il Carrer – lettore sottile e appassionato – nella storia della critica ottocentesca.

Nel periodo desanctisiano e dei tentativi di storia letteraria la valutazione del Foscolo (che prima era quasi sempre un’appendice del capitolo sul Monti e sul Pindemonte) si fa piú centrale e parte delle vecchie questioni (oscurità, immoralità, bizzarria, ecc.) cade di fronte a un riconoscimento della sua grandezza, della sua importanza patriottica (strada attraverso cui molte volte la fortuna del Foscolo è dovuta passare), del suo valore storico.

I Sepolcri sono diventati senza discussione il capolavoro del Risorgimento e l’Ortis una lettura essenziale ai giovani patrioti. Siamo anche nell’epoca in cui si prepara il ritorno delle ceneri del Foscolo (nel 1865 si aveva la prima proposta da parte di Raffaele Angeloni, ma l’impresa ebbe termine solo nel 1871) e l’edizione nazionale lemmoneriana procedeva a ritmo accelerato. Solo il Cantú (Storia della letteratura italiana, Firenze 1865) manteneva ancora l’accostamento del Foscolo alla scuola del Monti (trenta pagine al Monti, cinque al Foscolo!) e per i suoi pregiudizi moralistici e confessionali riprendeva le vecchie condanne dei contemporanei e del Tommaseo o del Rosmini: «La elevatezza dei suoi concetti trasse sciaguratamente ad irritarne cert’altri che piú s’opporrebbero all’effettuazione di quelli» (p. 606). «Pagano nell’immagine e nei sentimenti rinnega fin la speranza postuma nel Carme ove ai Sepolcri chiedeva rispetto e venerazione» (p. 607). E solo il mestier patriottico fortissimo nell’unitario Cantú lo induce a riconoscerne la parziale grandezza. «Quelle voci di petto quando non se n’udivano che di testa, spieghino ai retori la costui grandezza, l’influenza che ebbe sulla generazione seguente e il rincrescimento che si prova di non poterne altrettanto ammirare il carattere» (p. 610).

E se alla fine dichiara che proprio per la sua forza patriottica «pare sottrarsi al definitivo giudizio della posterità, incerta se fosse un angelo o un demonio, un franco pensatore o un servile mascherato» (p. 612), e riconosce la sua esemplarità di letterato antiarcadico, solo nel caso dei Sepolcri si abbandona ad una lode piú estetica:

Ma in quel carme all’Italia offriva uno sciolto, che non era quello del Parini, né di verun predecessore; grandeggiante di cose, variato di suoni, con oscurità affettata e apparenza di voli lirici ottenuti col sopprimere le idee intermedie e col surrogare all’argomentazione le immagini, l’amor delle quali e l’osservazione materiale aveva egli sviluppata nella vita avventurosa. Il proposito di uscire dal comune imprime al suo verso una selvaggia grandezza; ma la prosa ne rimane contorta, anelante, impropria...» (p. 607).

Le netta prevalenza della entusiastica valutazione risorgimentale nella interpretazione politica patriottica della poesia foscoliana può essere indicata da un volumetto quasi divulgativo, ma non privo di qualità critiche, e dal giudizio di uno storico francese.

Del primo (Giovanni De Castro, Ugo Foscolo, Torino 1863) si rileggono queste retoriche, ma significative dichiarazioni sulla particolare situazione di accordo tra lettori e poeta: «Se vi ha un’epoca la quale possa al giusto comprendere e onorare la forte anima di Ugo Foscolo, quest’epoca è la nostra» (p. 4); «Noi abbiamo provato tutte le angosce che non concessero pace all’autore dei Sepolcri e che gli fecero con prepotente anelito vagheggiare il freddo silenzio della tomba. Noi pure abbiamo disperato della vita... E anche noi abbiamo lottato, e abbiamo vinto. Potesse l’uomo che prima e solo iniziò quella lotta, aver nel sepolcro senso della vittoria» (p. 5); «La sua vita fu tutta passione, o meglio fu prepotente sfogo delle molte passioni che gli agitavano l’animo, e s’unificavano nell’indomito amor della patria» (p. 12). E su questa linea era facile anche la identificazione risorgimentale di Foscolo e Ortis. «Foscolo è tutto nell’Ortis, l’uomo, il poeta, il cittadino, il soldato» (p. 30).

E i Sepolcri sono senz’altro ricondotti ad espressione di una morte e di una resurrezione nazionale:

Inno funebre, esso sembra insieme annunciar la morte di un popolo e la sua resurrezione; ché allora l’idea della patria appariva velata dei panni della morte...

Quanto al secondo, Amedée Roux (Histoire de la litterature italienne, III, Paris 1870), questi in un accuratissimo capitolo sul Foscolo finisce per svalutare la fine dei Sepolcri per il pregiudizio politico e nazionale e anticlassicistico: «C’est par ses patriotiques souvenirs que l’auteur a été le mieux insperé; la fin de ce carme est belle sans doute, pleine d’animation et de feu, mais l’auteur commet une faute de goût en nous faisant passer de ce grand moyen-âge duquel nous sommes issus, à cette heroique mais fabuleuse époque de la Grèce, dont les souvenirs si pathetiquement idealisés par Homére ne sauraient pourtant en nous qu’une émotion du second dégré...» (p. 57).

Valutazione romantica e risorgimentale ch,e appoggiata all’opera di Mazzini e ad intuizioni del Cattaneo [che aveva indicato in una frase famosa il valore esemplare del Foscolo “cittadino” («diede all’Italia una nuova istituzione: l’esilio» – in Ugo Foscolo e l’Italia, edizione Milano 1913, p. 31) e capovolto il giudizio sul valore morale dell’Ortis («Non sarebbe agevole provare che quella tetra lettura abbia fatto piú numerosi suicidi in Italia che altrove; ma è certo che essa accrebbe nei figli d’una generazione spensierata e ignara il numero dei pensanti e dei volenti, e a maturar tempo, quello degli eroi» (p. 19)], portava una assicurazione non piú polemica della grandezza foscoliana, una adesione del gusto incondizionata (premessa alla critica desanctisiana) e insieme il pericolo di una deformazione della poesia e del suo significato storico, come era già avvenuto per l’Alfieri sentito solo come poeta patriottico. Perché l’onda in cui si trovava il Foscolo era piú lunga di quella dei poeti patriottici e il suo problema era piú complesso di un semplice problema politico.

Tuttavia, ripeto, questa sicura simpatia creatasi nel secondo Ottocento dopo le polemiche romantiche rappresentò quella base di contatto generale e storico in cui maturò il primo grande ritratto critico della poesia foscoliana; quello del saggio desanctisiano.

4. Il saggio desanctisiano

Il De Sanctis aveva già nel 1855 sul «Cimento» (ora in Saggi critici, I, Napoli 1931) parlato del Foscolo, controbattendo le affermazioni dello storico tedesco Gervinus che aveva chiamato il nostro «Catone cortigiano, natura cinica». Il De Sanctis nel saggio Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e Foscolo forní alcune pagine magistrali e spiegando uno dei punti piú attaccati dai romantici in nome della verità, della popolarità e storicità della poesia: e cioè dando una ragione storica del «classicismo borghese» del primo Ottocento che era nello «spirito dell’epoca» («Noi volevamo una patria e la patria fu per noi tutto. Il classicismo non fu dunque per noi una società morta; fu la nuova società sotto nomi antichi. Prendemmo il nome di patria circondata dall’aureola di tutta l’antichità e ci ponemmo a fondare la patria moderna»; p. 231), mentre illustrava la posizione storica e la originalità della politica foscoliana nelle sue fasi diverse. Preludio lucidissimo alle pagine piú vigorose e unitarie del Saggio: il Saggio celebrativo per il trasporto delle ceneri del poeta in S. Croce nel 1871 e pubblicato poi nel 1877 nei Nuovi saggi critici (ora in Opere, X, Napoli 1932): saggio sostanzialmente ripreso e sunteggiato nella Storia della letteratura italiana con qualche leggero ritocco di ammorbidimento: riprova questa della responsabilità che il De Sanctis attribuiva a quel saggio salito ben piú dal profondo che non da un semplice intento di celebrazione.

In quell’anno di celebrazioni fra retoriche e timide, fra le preoccupazioni del governo pauroso di tumulti mazziniani (v. l’articolo di M. Rosi nella «Nuova Antologia», 1° agosto 1928) e i lampi del Carducci repubblicano e paganeggiante contro «il bello italo regno», contro Tersite che erge «la deforme spalla sul tumulo d’Ajace» (Poesie. Per il trasporto delle reliquie di Ugo Foscolo in S. Croce, Levia-Gravia), il saggio desanctisiano rappresenta il primo grande tentativo di una linea intera della personalità foscoliana in vista della sua poesia. In queste pagine vigorosamente unitarie e veramente ispirate, la “statua” risorgimentale si precisa nella storia dello spirito foscoliano: una storia che sarà ripresa piú volte fino al Donadoni e piú in là, e che nella sua coerenza storica di storia della nazione italiana nella espressione dei suoi poeti sa individuare nuclei e momenti che ogni critico deve oramai discutere anche se li consideri insufficientemente approfonditi: perché il saggio ha pure qualcosa di rapido, piú attento ai passaggi e ai momenti dello sviluppo foscoliano che non alla precisa realtà della poesia a cui in quei giorni il Carducci invitava: della poesia foscoliana «bisognerebbe alfine parlare con piú sentimento e conoscenza d’arte e con meno declamazioni e preoccupazioni civili politiche e filosofiche» (Poesie, Bologna, diciottesima edizione, p. 373). Ma il Carducci non dette poi in sostanza che un interessantissimo saggio sulla poesia giovanile del Foscolo a cui la sua critica tecnica particolarmente si adattava, mentre il De Sanctis ci ha lasciato una intensa storia critica davvero esemplare e tale da fissare il punto per ogni critica successiva. Imperniato sull’essenziale motivo della “situazione” (su questo filo conduttore della critica desanctisiana si veda ora l’introduzione di G. Contini, De Sanctis, Scritti critici, Torino 1949, che riprende indagini di Valgimigli, N. Giordano Orsini e mie), il Saggio, che supera in ciò stesso la sua prima natura di elogio romantico, ha qui la sua forza e il suo limite in quanto troppo facilmente trascura il valore dell’ars, della totale espressione artistica, come preoccupazione essenziale del poeta, e piú facilmente sente le opere dove storicità e situazione sentimentale sono piú sicure e piene. Con il difetto che tornerà poi nel Donadoni, ciò che interessa il De Sanctis è l’anima del Foscolo nella sua diretta espressione poetica e la letteratura è impaccio, come è giustamente deprecabile ogni pericolo di astrattezza, di misticismo estetico, di poesia non calata nella “situazione” e nel “limite” della realtà. E si ricordi che in questo periodo, mentre il De Sanctis finiva la sua Storia letteraria, al motivo della situazione e del limite, della storia della nazione, si accompagnava la nuova esigenza realistica, che, sempre viva nel suo romanticismo, si colorava adesso di naturalismo e costituiva un serio pericolo per la lucidità del suo occhio critico aggravando la “corposità” dell’immagine e della situazione mentre giustamente reagiva al “nebuloso” e al sentimentalismo dell’ultimo romanticismo. Sicché sempre piú Inferno contro Paradiso, sempre piú Sepolcri contro Grazie. E sempre piú storia di poesia come dramma di personalità nella ricerca della sua pienezza, del suo culmine, della sua vera “situazione”.

Cosí la prima attività foscoliana viene ridotta ad esperienza caotica (per Carducci sarà comunque importante prova di formazione tecnica) in cui Foscolo è solo “reminiscenze”, pallida ombra senz’anima (e la passione letteraria, la ricerca di motivi congeniali, l’affermarsi del suo linguaggio sul linguaggio altrui sono inevitabilmente trascurati), mentre, in vantaggio su ricerche stilistiche esangui di derivazione carducciana, l’incertezza letteraria e politica è collegata alla crisi del secolo.

Questa mescolanza di una energia un po’ rettorica e di una tenerezza un po’ arcadica, quei furori lacrimosi, questi entusiasmi malinconici rivelavano quello stato morboso della spirito, che precorre alle grandi rivoluzioni (p. 181).

Considerata la sua formazione come una lotta contro la deformazione letteraria («La scuola gli falsa non solo l’espressione, ma il concepire», p. 186) sulla linea del romantico interesse per la personalità contro l’ars, il De Sanctis studia soprattutto l’apparire dell’uomo appassionante e storico, la natura e la quantità della sua forza e dei suoi temi in una esasperazione della ricerca dei motivi e delle immagini essenziali della fantasia foscoliana che in una critica piú moderna dovrebbero calare piuttosto in funzione di concreta poesia.

Motivi lirici piú che germi di situazioni. È giusto cosí indicare nell’«illacrimata sepoltura» «il germe dei Sepolcri» (p. 191), ma la poesia dei Sepolcri è poi una ben diversa realtà nello sviluppo artistico del Foscolo, nell’allargarsi della sua fantasia e delle sue esigenze artistiche.

E nelle Ultime lettere, eliminato il confronto con il Werther (che pure continua sempre ad affascinare e a interessare i critici fino ai nostri giorni e su cui torneremo a suo tempo) riconducendo questo a vero romanzo e l’Ortis a «poesia in prosa», l’individuarne il sostanziale limite estetico non tanto nelle due anime (amore e patria) né naturalmente nell’empietà pericolosa, quanto nella situazione troppo tesa e incapace di sviluppo, già catastrofe all’inizio stesso, e nel carattere di sprezzo inadatto a vivere come tutto il suo ideale calpestato dal reale (Venezia, Teresa contro Odoardo), implica poi, fra romanticismo e realismo, una chiusura di fronte al valore accennato nella formula di «poesia in prosa», di diario poetico, di schema drammatico-narrativo in funzione di espressione poetica. E la giustificazione del limitato valore dell’Ortis non scendeva nella radice di quella opera, finiva per giudicarla da un punto di vista sempre moralistico («stato morboso») e drammatico («una situazione cosí esaltata nel suo lirismo, non può troppo protrarsi senza che la diventi monotona e sazievole»; p. 197) per cui il Werther primeggia proprio in quanto compiuta «storia psicologica». L’esigenza dell’organico e del concreto drammatico e sentimentale colpiva da due parti Ortis e Grazie; e le colpiva come salita e discesa, morbosità e astrattezza critica, il gusto della pienezza matura, della personalità intera e ricca di significati storici. I veri limiti dell’Ortis erano ben rilevati (oratoria, confusione fra lirismo e narrazione), ma la sua complessiva immaturità è sentita ancora troppo come malattia di crescenza e crisi del secolo.

Era in questo senso storico che il De Sanctis sentiva meglio l’Ortis e ne faceva un primo ritratto essenziale del Foscolo:

Questi fenomeni non sono dunque capricci individuali, sono necessità psicologiche della storia. Alfieri e Foscolo sono la voce della nuova Italia in quella prima apparizione innanzi allo spirito; idea ancora vuota, ma non piú accademica, piena di energia e destinata a vivere. Perciò il libro di Foscolo, meno perfetto artisticamente che il Werther, ha molta piú importanza nella storia dello spirito. È il testamento di quel gran secolo, il suo grido di dolore innanzi alla caduta di tutte le illusioni (p. 201).

Storia psicologica e storia dello spirito, piú che vera storia della poesia che presupponeva la coscienza del piano letterario e del distacco artistico. Vuoto ideale (si pensi alla formula che ossessionava il De Sanctis e che trovò il suo capolavoro nei Promessi Sposi, ideale che ha trovato il limite del reale) che richiederebbe il verso, non la prosa che deve essere romanticamente semplice e naturale.

Situazioni cosí ideali, cosí superiori alla vita comune vogliono il verso per loro espressione (p. 198).

Con un colpo d’ala il De Sanctis si riporta poi nel denso viluppo della personalità foscoliana e, fedele alla sua linea rossa della energia vitale, apre il nuovo capitolo (in realtà con qualche confusione data la condizione delle redazioni ortisiane e del loro intrecciarsi con altre produzioni) fra Odi e sonetti: «Il disinganno uccide Jacopo, ma non uccide Foscolo. L’esercizio della vita scampò Foscolo da quella consunzione» (p. 201). E poi «A quei sonetti lapidari, succede la classica ode nei suoi ampli e flessuosi giri, dove l’animo si espande nella varietà della vita» (p. 202); «In questo suo classicismo a colori vivi e nuovi senti la freschezza di una vita giovane e guarita da quel sentimentalismo snervante e risorta all’entusiasmo, incolorita dagli occhi neri e dal caro viso e dall’agile corpo e dai molli contorni della beltà femminile, tra balli e canti e suoni d’arpa. In questo mondo musicale e voluttuoso l’anima si fa liquida, si raddolcisce e spunta la grazia» (p. 202).

Quanta ricchezza di definizione e di indicazione anche estetica in una indagine inevitabilmente unificata soprattutto da una linea vita-poesia che batte prevalentemente sul primo termine come suscettibile di storia e di sviluppo, come garanzia di antiretorica e di fecondità d’ispirazione.

La serietà, l’intensità della vita e la sua antiretorica, l’esistenza in lui di un mondo nobile e «non smentito dalla vita» conducono il Foscolo al suo capolavoro, i Sepolcri, nella sua maturità di sentimenti e di ideali e alla loro misura e al loro limite concreto.

Tutte queste forze sparpagliate, esitanti, che non avevano ancora trovato un centro, sono raccolte e riconciliate in questo mondo pieno e concreto, dove ciascuna trova nelle altre il suo limite e la sua misura (p. 205).

Tipica formula desanctisiana usata in un momento felice e pieno e tale da realizzare in un senso storico-estetico il culto mazziniano della personalità intera e del suo storico significato. Poeta e profeta si univano nei Sepolcri all’“artista” (che difficoltà per l’Ottocento sistemare il Foscolo con la sua concezione del poeta primitivo e con la sua acutissima coscienza stilistica che poteva essere attaccata come futilità e accademia!).

Nei Sepolcri apparisce per la prima volta nel suo carattere d’intimità [il mondo della patria, libertà, ecc.] come un prodotto della coscienza e del sentimento. Questa prima voce della nuova lirica ha un non so che di sacro, come un Inno; perché infine ricostituire la coscienza è ricostituire nell’anima una religione... Una poesia tale annunziava la risurrezione di un mondo interiore in un popolo oscillante tra l’ipocrisia e la negazione (p. 206).

In pagine intense il De Sanctis collega e distacca insieme il nuovo Foscolo rispetto a Jacopo, fa del nuovo Foscolo il superatore del pessimismo nella certezza delle illusioni e piú, attraverso di esse, della coscienza umana.

Di fronte ai Sepolcri il critico sentiva piú forte la commozione risorgimentale per la grandezza del Foscolo e son proprio tutte le parole piú sue a denunciarci l’impressione di una piena fruizione estetica e sentimentale e la commozione che gli impedí di dare spiegazione precisa della sua grandiosa esaltazione.

Tale è questo mondo di Foscolo: il risorgimento delle illusioni accanto al risorgimento della coscienza umana. L’immaginazione non sta per sé, e non lavora dal di fuori, come in V. Monti; ma è il prodotto della coscienza, è fatta attiva dai sentimenti piú delicati e piú virili della vita pubblica e privata. O piuttosto non è semplice immaginazione, è fantasia, che è nell’arte quella che nella vita è la coscienza, il centro universale e armonico dello spirito (p. 208).

Cosí forte è stato lo stimolo dei Sepolcri che De Sanctis ha trovato una analogia fra coscienza e fantasia che è veramente rivelatrice per tutta la sua critica.

Da quel momento di adesione totale comincia il declino del saggio, che, sempre coerente alla sua linea centrale, non poteva che condannare le Grazie come prodotto di esaurimento della concitazione dei Sepolcri, l’ultimo stanco moto di una agitazione vitale. Naturalmente anche il velo allegorico-didattico doveva urtare il De Sanctis.

Il velo delle Grazie varrà bene il cinto di Venere; ma se mi vuole sforzare a guardarci sotto una storia, io l’odio e non lo guardo piú. Se è lecito comparare le piccole cose con le grandi, dai Sepolcri alle Grazie corre quella relazione tra la Margherita e l’Elena, tra la prima e la seconda parte del Faust. L’astrazione che è nel concetto si comunica anche alla forma, raggomitolata, incastonata, lucida e fredda come una pietra preziosa (pp. 221-222).

Sicché l’ideale delle Grazie rimane ozioso, «arbitrario o epicureo... non divenne Foscolo» e «vien fuori con tutto l’apparato dell’erudizione, in una forma finita dall’ultima perfezione; ci si vede l’artista consumato; appena c’è piú il poeta» (p. 213).

E nella Storia riprende persino il tema delle contraddizioni foscoliane per indicare il carattere arbitrario, antistorico delle Grazie, nate quando già fioriva il romanticismo e il Foscolo stesso pareva avviarsi a quella concezione piú organica e “moderata”.

E quando avea già moderate molte sue opinioni religiose e politiche, e s’era fatto della vita un concetto piú reale, e s’era spogliata gran parte delle sue illusioni, quando stava già con l’un piede nel nuovo secolo; calunniato, disconosciuto, dimenticato, nel continuo flutto delle sue contraddizioni, finí tristo, lanciando al nuovo secolo, come una sfida, le Grazie, l’ultimo fiore del classicismo italiano (p. 326).

Affermazioni che una critica moderna non può che rovesciare, assicurando al poeta delle Grazie la sua storicità e la sua coerenza spirituale e poetica.

Era l’estrema incomprensione romantica che ammetteva il classicismo repubblicano di fine Settecento, ma non quello contemporaneo al romanticismo, non distinguendo la tradizione che culminerà nel Leopardi e che propone temi importanti non solo per la critica estetica ma per la storia generale dell’Ottocento italiano.

Se nella Storia della letteratura il taglio del capitolo insiste sulla contraddizione tra il Foscolo che apriva la via al nuovo secolo e il suo classicismo caparbio («Foscolo apriva la via al nuovo secolo. E non è dubbio che, se il progresso umano avvenisse non in modo tumultuario, ma in modo logico e pacifico, l’ultimo scrittore del secolo XVIII sarebbe stato anche il primo scrittore del secolo XIX, il capo della nuova scuola»), nel Saggio si dà ancora una larga parte al critico, di cui si riconoscono la vicinanza ad un effettivo studio della personalità poetica («Foscolo è il primo tra i critici italiani che considera un lavoro d’arte come un fenomeno psicologico, e ne cerca i motivi nell’anima dello scrittore, e nell’ambiente del secolo in cui nacque»; p. 214) e l’accordo essenziale fra coscienza e realtà che vale per il critico, per l’uomo e per il poeta.

In questa reintegrazione della coscienza o di un mondo interiore accordavasi il poeta, il professore e il critico... È il centro ove convergono tutte le sue facoltà e gli dà una fisionomia (p. 214).

E se anche nel Saggio il De Sanctis si rammarica che il Foscolo sia rimasto fuori dal romanticismo, tuttavia al Foscolo egli riconosce come Mazzini il posto di compagno degli uomini del Risorgimento, «di guida e maestro anzi, esempio sublime di un passato glorioso a cui va aggiunto una piú sicura coscienza della realtà».

Possano i nostri figli contemplare in questa nuova statua che innalziamo un’ultima voce del passato, l’ultimo cavaliere errante de’ tempi moderni; e cercare la salute nella intelligenza della vita; nello studio del reale, attingendo nella scienza quel senso della misura, che è il vero fecondatore dell’idea, il grande produttore! (p. 217).

Ancora alla fine e proprio nella volontà di definire meglio storicamente il posto della statua foscoliana, il De Sanctis ci fa sentire i limiti della sua grande revisione critica in cui il romanticismo italiano ha sistemato criticamente il suo culto non senza risentire alcune ragioni dei moderati cattolici e dei manzoniani, aprendo insieme la via alla considerazione dell’ultimo Ottocento realistico e scientifico, amante della misura e del limite al punto da risuscitare nell’ultimo De Sanctis la replica di “ideale e reale”.

5. Il periodo positivistico

Con la scuola del metodo storico, comincia un periodo di attenzione minuta e provvidenziale (anche se cosí miope e incapace per conto suo di una visione generale dei problemi e della poesia) non tanto alla poesia foscoliana quanto ai particolari della biografia, alla ricerca delle lettere, alla ricostruzione dei testi, al commento dei Sepolcri e alla indagine “comparatista” specialmente intorno all’Ortis e ai Sepolcri.

In realtà molti problemi che noi possiamo oggi vedere da un punto di vista piú preciso, piú storico ed estetico insieme, furono posti in quegli anni di scarsissima sensibilità e di involuzione estetica (mentre scrivevano non solo Carducci, ma Mallarmé e Verlaine), di degradazione del fenomeno estetico a brutale contenutismo o a ripresa senza valore dei vecchi miti nazionalistici e moralistici del romanticismo.

Non fu ascoltato (e non poteva esserlo per mancanza di orecchi) l’appello del Carducci che parlava di «coscienza dell’arte» e che nel saggio L’adolescenza di Ugo Foscolo aveva scritto un capitolo essenziale per la storia della formazione foscoliana[3], ma ci si rivolse con ardore a precisare la biografia foscoliana in ogni suo minimo particolare, con la maggiore “obbiettività”, anche se il moralismo e il patriottismo non mancavano di farsi sentire tendenziosamente, come nel caso mostruoso del Mestica che, pubblicando il carteggio Arese-Foscolo, tagliò le parti che la sua pruderie riteneva offensive al buon nome del poeta-vate.

Si hanno comunque pubblicazioni di lettere inedite, integrazioni alla edizione Le Monnier, commenti e soprattutto studi biografici a cui dette l’avvio il libretto del Corio (Lodovico Corio, Rivelazioni storiche intorno ad Ugo Foscolo, Milano 1873), che, presentando trenta lettere ricavate dall’Archivio di Stato di Milano, si rivolge «agli amici del vero» e si propone il problema della «vita privata» (che incuriosí ed eccitò sempre gli studiosi positivisti) da indagare senza rispetti «in questi tempi, in cui si vuole il vero ad ogni costo e l’idolatria ed il dogma con ogni sforzo si cacciano da banda» (p. 17).

Partendo in polemica con gli apologisti per i quali «ogni giudizio che non suonasse ad elogio del loro idolo dovrebbe morire sulle labbra dello storico e del critico...», il Corio, mentre reagiva giustamente alla critica apologetica, ricercava le pecche del Foscolo come capitano («disordine amministrativo», indecorose «richieste di anticipi»!), come uomo politico (reagendo al Pavesio e al Trevisan, La professione politica di Ugo Foscolo) nelle esitazioni del periodo milanese precedente l’esilio: per il quale, nel riportare le lettere dello Hager e dello Strassoldo sulle trattative circa il foglio che il Foscolo avrebbe dovuto dirigere, si vuol mostrare la debolezza, la tentazione subita, l’incoerenza del patriota e in realtà ci si offrono anche chiare lodi nelle lettere dello Strassoldo che dubitava della possibilità di servirsi del Foscolo: «er wird unter jeder Regierung ein gefährlicher Mensch ohne Religion, ohne Moralität, und ohne Karakter bleiben» (p. 94). L’accusa del poliziotto era un riconoscimento della irriducibilità del Foscolo a servire un “regime”.

Cosí quel libro, come piú tardi il libro ben piú importante del Bertana sull’Alfieri, indica l’utile volontà di umanizzazione degli autori dopo il mito romantico, ma insieme la miseria di una riduzione di storia a cronaca spesso quasi pettegola.

All’illusione positivistica di una ricostruzione biografica puramente cronachistica (e d’altra parte alle sue notevolissime utilità) corrisponde la illusione di spiegare la poesia come invenzione, materialisticamente relegando il fatto artistico e poetico nella sfera o del miracoloso o dell’ornamentale.

Ecco cosí gli studi “comparativi”, chiusi in un “dare ed avere” ragionieristico (cosí la lunga questione che appassionò gli studiosi di quel periodo circa la priorità fra Pindemonte e Foscolo nella composizione dei Sepolcri e dei Cimiteri, circa il debito o il furto del Foscolo nei riguardi del povero Pindemonte defraudato del tema!), ma d’altra parte essenziali per noi gli studi di poetica che nelle preferenze, nelle letture ed anche nelle riprese di temi, di elementi di linguaggio, di cadenze poetiche ricostruiscono il gusto di un poeta, il muoversi e il precisarsi delle sue qualità stilistiche, aiutano a individuare il suo accento originale.

Cosí gli studi su Ortis e Werther, su altre fonti dalla Nouvelle Héloïse alle Lettres de deux amants del Léonard, cosí i paralleli del fine Zanella tra l’Elegia del Gray e i Sepolcri fino a quelli del Cian sulla Storia della poesia e del sentimento sepolcrale (G.S.L.I., 1892) e dello Zumbini (Werther e Ortis, Napoli 1905), se restano ai margini esterni della poesia e della personalità foscoliana, sono però una raccolta formidabile di citazioni e di indicazioni utilizzabili per la storia della formazione del linguaggio poetico, del gusto e della poetica foscoliana: dai termini piú generali sino alla spiegazione di certi particolari tecnici e stilistici.

Una nuova coscienza storicistica trova in quelle ricerche la rozza espressione di esigenze piú profonde e una preziosa raccolta di materiali preparatorî.

L’erudizione fu in quel periodo una reazione al romanticismo piú generico e, pur nella sua nullità estetica, un momento non eliminabile della storia letteraria da riprendersi con altra coscienza. Fonti, paralleli possono cambiare non tanto il loro nome, ma la loro funzione in studi di poetica e di formazione letteraria: erano quindi suscettibili di utilizzazione solo dopo la precisazione crociana (storia a parte subjecti) e la coscienza del piano letterario, della poetica e della critica dinamica a cui le esperienze postcrociane ci conducono.

Oltre gli studi biografici e le ricerche sulle fonti (uno storicismo rozzo ed ingenuo), le pubblicazioni di lettere e documenti, e le edizioni tentate a fine secolo delle poesie giovanili e delle Grazie ad opera di Giuseppe Chiarini (Livorno 1882), al quale anche si deve la biografia piú attendibile del Foscolo, la piú informata ed onesta (Firenze 1910) anche se troppo indulgente alla ricerca della vita amorosa (Gli amori di Ugo Foscolo, aveva precedentemente scritto il Chiarini, e su questi amori si eserciteranno studiosi eruditi e scrittori di belle pagine fino alla vita romanzata del buon Saponaro[4]), il periodo del metodo storico dette i primi veri “commenti” delle poesie foscoliane e soprattutto di Odi, Sonetti e specie Sepolcri, isolati a scapito della restante opera foscoliana come capolavoro patriottico e tema di esercitazioni oratorie.

Cosí i commenti dei Sepolcri del Trevisan (Verona 1881), del Canello (Padova 1873), di G.A. Martinetti (Torino 1874), di A. Ugoletti (Studi sui Sepolcri, Bologna 1888), di S. Ferrari (Firenze 1891), R. Fornaciari (Poesie scelte, Firenze 1897), ecc., ecc., indispensabili e abbondantemente utilizzati dai commentatori piú moderni e piú esteticamente agguerriti.

Piú difficile invece chiedere all’ultimo Ottocento qualche pagina di critica estetica sul Foscolo, e da questo punto di vista non si può che accettare la condanna che il foscolista Donadoni fece di quel periodo e di quel metodo che, secondo la sua parola, «per ammantare la sua nullità si fregiò del nome di storico».

Solo lo Zanella, il tenue parnassiano cattolico, nella sua Storia della letteratura italiana dalla metà del Settecento ai giorni nostri (Milano 1880) tentò, al di fuori dei suoi Paralleli (Foscolo e Gray), un ritratto critico del Foscolo in cui la funzione civile è accoppiata ad un gusto di «intarsiatore e mosaicista eminente» (p. 187) che tuttavia ha bisogno dell’elemento politico per acquistare la sua originalità. Accanito contro le Grazie («Io lascio che il Settembrini vada in sollucchero a quella lettura; ma io sfido chi abbia il senso della proporzione e dell’armonia poetica, di cui fu tanto studioso il Foscolo, a non trovare indigesti e non di rado stucchevoli quegli inni tanto lontani dalla severa misura delle Odi e dei Sepolcri»; p. 195), questo classicista postromantico indugia sulla prosa dell’Ortis per cui ha una frase assai importante («ha nondimeno pagine d’inarrivabile bellezza per un misto felice di lingua casalinga e poetica che il Tommaseo, non molto amico del Foscolo, pure imitò nel Fede e Bellezza», p. 188) e soprattutto sulle traduzioni omeriche per le quali dubita della fedeltà foscoliana e parla di alessandrinismo e di sentimentalizzazione di Omero.

Solo quando si abbatte in qualche racconto di dolore come per pestilenza o per morte il suo verso si tinge di una tristezza che emula il greco e si lascia addietro quello del Monti (p. 188).

Comunque, questa attenzione dello Zanella conta qualcosa nella storia della critica foscoliana fra quelle rare ricerche di stile che il positivismo si permise accanto alle sue fatiche erudite.

6. La critica idealistica e il Croce

La nuova critica di tipo estetico e idealistico comincia solo con il Donadoni. Ché il brillantissimo capitolo del Borgese nella Storia della critica romantica in Italia (Napoli 1905, poi Milano 1920 ed ora Milano 1949) comporta la rivalutazione del critico-precursore, ma non implica un notevole spostamento del giudizio desanctisiano con cui riconosce gli «errori» del classicista né un tentativo di rivedere tutta la personalità foscoliana attraverso quel particolare spaccato. Era però vivo nel Borgese quel rilievo dell’influsso vichiano che fu in quegli anni accentuato in uno studio assai notevole di Giovanni Rossi (Due fonti della ragione poetica di Ugo Foscolo, in «Rivista d’Italia», 1909): uno studio che, indicando la precisa presenza della Scienza Nuova e quella del pensiero di Antonio Conti, pose un doppio problema importantissimo per Sepolcri e Grazie.

Anche il Donadoni (Ugo Foscolo pensatore, critico e poeta, Palermo 1910, seconda edizione, Palermo 1927) adibí alla sua poderosa costruzione un forte apparato di cultura e pose la presenza del Vico a momento essenziale nella formazione foscoliana. Ma, in quel libro fondamentale del critico piú vivo e personale della scuola desanctisiana nel primo venticinquennio del Novecento, il vastissimo materiale culturale è sottoposto ad una decisa ricerca di personalità e di poesia nella sua fonte spirituale. Tutto viene riportato con forza nell’interno della vita spirituale foscoliana e, mentre le correnti filosofiche (sensismo, vichianesimo, hobbesismo) si trasformano in motivi drammatici dell’animo foscoliano, lo sviluppo interno del pensiero e della posizione foscoliana è rappreso in unità, colto in un momento centrale, anche se una specie di lente di ingrandimento rileva minutamente i singoli elementi sino all’eccesso della descrizione interminabile dei giudizi del Foscolo critico.

Non c’è tanto prospettiva di sviluppo del pensiero e della poetica, ma coerentemente allo sforzo originale del Donadoni si afferra piuttosto il Foscolo in blocco, nella sua vita interiore rappresa nel proprio nucleo da cui emanano i singoli momenti di pensiero o di poesia.

Potente reazione alla disgregazione positivistica, esasperata esigenza unitaria dello spiritualismo idealistico del primo Novecento, che riprende l’esigenza centrale del De Sanctis respingendone però in secondo piano la volontà storica a favore della maggiore individualizzazione possibile secondo il principio donadoniano che «l’anima è ciò che piú interessa le anime». Sicché l’avvicinamento al centro spirituale è operato non certo trascurando la storia che permette l’impressione acuta della crisi sensismo-vichianesimo-hobbesismo, ma riducendola il piú possibile a dramma spirituale piú che nella direzione di motivi risentiti in fine in funzione letteraria e poetica.

L’urgenza di interpretazione dell’anima foscoliana finiva per velare l’esame della poesia nella sua realizzazione distaccata e nel suo processo letterario-stilistico, ma si trattava in realtà di una trascuranza e di una violenza salutare per una ripresa dal punto di partenza desanctisiano della figura totale del Foscolo con l’aggiunta di una coscienza idealistica piú larga.

In realtà nel voluminoso saggio la poesia risultava sacrificata nell’ultima parte a tutto beneficio di una esposizione minuta ma non molto critica delle varie opinioni, dei vari atteggiamenti del Foscolo: immenso repertorio dei giudizi del critico collocati cronologicamente quasi per una traccia di storia della letteratura italiana foscoliana, ed esposizione puntualizzata secondo molteplici direzioni del pensiero e dell’animo foscoliano (con molta utilizzazione delle Vite foscoliane del Carrer, del Gemelli, del De Winckels) spesso ovvie e monotone, non sempre rinnovatrici, come i finissimi capitoletti sulla religiosità del Foscolo, sul suo concetto di letterato e della santità dell’ufficio letterario in cui intuizioni desanctisiane e mazziniane erano sistemate con una maggiore precisione e aderenza ai testi minuziosamente citati (ma non citati storicamente secondo un loro sviluppo). Anche sul pensiero politico Donadoni riprendendo le intuizioni ottocentistiche agita i problemi che piú tardi troveranno sistemazione piú matura nel saggio essenziale del Salvatorelli (Storia del pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino 1935) e l’insistente accentuazione dell’hobbesianismo foscoliano prepara certamente, al di là di frettolose sistemazioni come nel saggio di Eva Zona, L’unità organica del pensiero foscoliano, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1914, una nuova valutazione del pensiero foscoliano (già presente invece nel Croce), del suo dramma fra illuminismo, empirismo ed idealismo di eccezionale importanza per la storia del nostro Ottocento e per la storia della poesia foscoliana. E in questo senso non può sfuggire anche l’importanza degli accenni donadoniani al legame Foscolo-Leopardi, Ortis-giovane Leopardi (si veda ora un recente lavoro di E. Guidi, Il Leopardi e l’Ortis, Genova 1947; e prima G. Marpillero, Werther, Ortis e il Leopardi, G.S.L.I., 1900).

In sostanza dal rilievo minuto delle «novità originali» del Foscolo il Donadoni, che pur tutto legava all’anima, alla personalità, non riuscí a risalire se non ad un cerchio psicologico (ma in questa direzione c’è ancora posto per una vera Vita interiore del Foscolo meno antologica di quella pure assai interessante di Claudio Varese, Bologna 1942). E i giudizi sulla poesia seguono la nota parabola desanctisiana con un approfondimento maggiore dell’Ortis quale vivaio dei motivi di tutta la poesia foscoliana: motivo che poi verrà disputato come novità da parte di critici piú recenti.

Sí che la parte del saggio dedicato al Foscolo poeta (il libro ha per sottotitolo: pensatore, critico, poeta) si riduce ad un saggio sull’Ortis («Io mi sono fermato forse troppo a lungo ad esaminare gli spiriti dell’Ortis, nel quale veramente il Foscolo ritrovò pur sempre la parte migliore e piú eloquente di se stesso... Anche i principi estetici del Foscolo, anche le predilezioni letterarie, che non lo abbandoneranno piú, si potrebbero ricercare nel romanzo»), senza alcun tentativo di lettura sulla costituzione di “strati”.

Per il resto ritorno della linea desanctisiana: Odi come «guarigione» del Foscolo, culmine nei Sepolcri, e nelle Grazie la ripresa desanctisiana della prevalenza del critico (v. p. 601).

Un libro ricco di suggerimenti importanti e spesso ottima integrazione al saggio donadoniano è quello di Giuseppe Manacorda, Studi foscoliani, pubblicato postumo a Bari nel 1921.

Difficilmente presentabile in una tesi centrale, il libro si svolge in ricerche diverse e in avvicinamenti puntualmente poco aggiustati (la Jeune Tarentine e poi Fanny malade di Chénier per le due Odi e poi Ortis e Hyperion di Hölderlin come romanzi epistolari a due anime), ma adatti a far meglio sentire l’orizzonte europeo su cui si colloca la poesia foscoliana, come i saggi su Odi e sonetti tendevano a mostrare la vittoria dell’idealismo sul sensismo settecentesco ispiratore di un’arte minuta e descrittivistica («Anzi vera descrizione non c’è – dice di Alla sera – tanto l’oggetto è vinto dal soggetto e posto in questo, poiché idealismo vinse sensismo in Ugo che pur non conosceva Fichte suo coevo!»; p. 39), tendevano a chiarire il particolare classicismo foscoliano come classicismo soggettivo e a sfondo civile separato dal neoclassicismo winckelmanniano sentito troppo come unicamente decorativo ed esteriore:

Ha fatto insomma un classicismo suo, che talvolta si avvicina o s’incontra, senza volerlo, con quello del Winckelmann o del Visconti, del Monti o del Canova, e viceversa, dello Herder stesso che Roma ebbe in disdegno... L’ispirazione si accende in lui come subita vampa e viene dalla realtà vissuta; poi questa vampa avvolge ed assorbe, mutandosi, tutti gli elementi delle sue letture, anche remote, fatte senza quel fine determinato: al richiamo corrono spontanei e numerosi i ricordi esatti ed inesatti, greci e latini; greci antichi ed ellenistici, e tutto va a fondersi nel calore del suo sentimento che sgorga con l’impeto di un’onda possente e sbrigliata (p. 146).

Lo sforzo culturale del Manacorda si precisa di fronte ai Sepolcri a cui è dedicata la seconda metà del libro. Mentre concludono poco i paragoni con Novalis e Chateaubriand, sono illuminanti le pagine sul Delille, Legouvé e Delavigne (rinascita degli ideali sopra la negazione materialistica) ad indicare una realtà storica di cultura e di sensibilità che sostiene la nascita del Carme.

Cosí va calcolato il tentativo di avvicinare Foscolo a Fichte che in quegli anni (1807-1808) parlava di immortalità nel ricordo, alla sua nazione oppressa, e piú in profondo quello di spiegare i toni tradizionalmente considerati piú romantici (o fosco-romantici secondo l’espressione del Russo) proprio con una forma di classicismo lugubre, in una contaminazione fra concezioni cristiane e concezioni scetticamente antiche («Qui come altrove il pensiero e l’arte del Foscolo fluttuavano incerte fra il classicissimo culto e la leggenda, il sentimento popolare; il poeta non ha una fede, un dogma, come il cristiano, né fra i pagani trova sicura e fissa dottrina, ma vaghi accenni ed incerti sensi»; p. 212), e in ripresa di suggestioni tipicamente classiche.

Lo stesso può dirsi della macabra scena dei cimiteri suburbani, ove tombe e luna ed orridi uccelli ed ululati di cagne fameliche paiono apparato romantico e non sono altro che armamentario consueto delle scene lugubri e degli incantesimi in Teocrito, in Virgilio, in Orazio e Lucano (p. 154).

Motivo suggestivo ed unificativo sulla linea del neoclassicismo foscoliano, a cui contribuisce il lungo capitolo sui riti, costumi, reminiscenze classiche nei Sepolcri. Appoggiato giustamente al Commento alla Chioma di Berenice (tradizionalmente trascurato o considerato come bizzarra e ambigua prosa filologica).

Eccessivo nelle sue tesi e in un certo gusto di capovolgimento non resistente nelle minute riprese, il Manacorda mirava giustamente a ricollegare il Foscolo al romanticismo nelle sue esigenze idealistiche (Fichte, Vico), nella ampiezza storica che lo aiuta a superare l’erudizione archeologica dei neoclassici e al classicismo ellenizzante (l’assenza di Roma nel Carme!), sí che ogni immagine viene a lui da quel mondo che poi superava, ben al di là dei tentativi delle Odi, piú frammentari e miniaturistici, nei Sepolcri dove il vichianesimo lo solleva al di sopra dei poeti «pei quali l’antico non cessò mai del tutto di essere erudizione, dottrina, cura esterna e che sa di scuola» (p. 276). «Vico che canta e non sillogizza» arriva a dire il Manacorda per i Sepolcri, che si reggono per lui in un momento particolare e fugace di equilibrio dovuto in gran parte proprio allo stimolo del Vico, cioè dello storicismo idealistico alle sue origini piú potenti.

Il Foscolo nei Sonetti, nelle Odi coglie un momento della sua vita intera; ma nei Sepolcri, nella pienezza della sua giovinezza, riflette tutto, tutto se stesso e il suo mondo poetico. Cosí egli si esaurisce. I Sepolcri fioriscono nel momento in cui gli studi sui classici, le letture moderne, la vita privata e pubblica dei suoi dí, i dolori e le tenui speranze si compongono in un istante di fugace equilibrio (p. 277).

Al solito condanna delle Grazie e, per altre strade e con offerte di grande interesse e di diversa fungibilità, un appoggio al neodesanctisianesimo di Donadoni con mezzi culturali piú precisi e con suggerimenti innovatori.

Sentí i risultati e i suggerimenti del Donadoni e del Manacorda il Croce che nel saggio sul Foscolo («Critica», 1922), riportato in Poesia e non poesia (terza edizione, Bari 1942), accanto alla incomprensione del Leopardi, mostrò una apertura e una simpatia di fronte al Foscolo in gran parte ispirata all’acuto e positivo senso della vita, ai valori-illusioni, capaci di inserimento nel mondo dello spirito umano nelle sue posizioni affermative. Non sembrerà pettegolezzo questa constatazione di una simpatia di ordine personale se si pensi alla svalutazione risoluta e pesante della personalità leopardiana chiusa nella «vita strozzata», nel rancore dell’«escluso», e proprio nella mancanza morbosa di uno svolgimento che chiama in causa il Foscolo diversamente vivo e svolto.

Si pensi per contrasto ad altre vite, e non già calme e felici, ma travagliate e burrascose, per esempio, a quella di Ugo Foscolo; e si mostrerà evidente che il Foscolo visse e si svolse, e il povero Leopardi no (Poesia e non poesia, Bari 1942 terza edizione, p. 102, Saggi sul Leopardi).

La fede nella vita, del Foscolo, il suo senso della storia, almeno potenziale, il suo vichianesimo che fece parlare tanto di idealismo nell’epoca in cui il forte pensiero idealistico cercava espressioni anticipate di sé, e quasi una propria poesia, quella sorte di virile accettazione della vita che culmina nei Sepolcri e può apparire quale saggezza sicura e senza abbandoni anche nelle Grazie, resero piú facile all’ottimismo virile, alla saggezza provvidenzialistica del Croce una accoglienza di caldo entusiasmo al poeta delle illusioni, capaci di suscitar vita e di muovere storia, al pensatore e al critico che pur non sistematicamente aveva offerto generali e vigorose intuizioni (accennate già dal Donadoni) appoggiate tutte ad una vita operosa, appassionata, in cui persino il concetto di “noia” (che tanto lega Foscolo a Leopardi) era funzione di attività e di pensoso tormento: «momento negativo eppure dialettico e propulsivo» (p. 72).

Sí che il Saggio, legato evidentemente a quello desanctisiano nella sua linea esemplare e nella sua verifica di vita e di storicità, indissolubilmente congiunte, si presenta come un aggiornamento di quello nello stesso tono di sostanziale celebrazione, di affermazione contro i residui del “cronachismo” positivistico e del moralismo cattolico del Risorgimento, e insieme, sugli stimoli del Manacorda e del Donadoni, allargava la giustificazione storica (allo stesso modo che potentemente e piú originalmente aveva fatto nel bellissimo saggio sull’Alfieri) al romanticismo europeo, al di là della sua funzione nazionale, ed accoglieva le Grazie trovandoci proprio quella vita, quella presenza di tensione poetica che il De Sanctis non aveva potuto trovarci, limitato dal suo gusto romantico e dall’angustia della sua storia nazionale.

Le prime pagine divengono cosí un’appassionata difesa della positività dell’animo foscoliano che pare rispondere nella maniera piú decisa e moderna alla vecchia polemica cattolica, anche se in verità la drammaticità della poesia foscoliana nella sua continua dialettica di crisi e di superamento, il suo sostanziale pessimismo non spentosi neppure nelle Grazie, e nel loro iperuranio di saggezza e di bellezza neoclassica e romantica, finiscono per sfuggire al Croce, troppo teso a sentire il superamento di temi illuministici in temi vitali, positivi, sostanzialmente slegati nella loro azione nuova dalla base vecchia e caduca.

L’animo e il pensiero fecero sí che il Foscolo nel buio della forza travolgente, ignota, estranea e perciò materialistica, scoprisse un lume, si appigliasse a un punto di consistenza per riguadagnare la spontaneità, l’autonomia, la libertà. Che cosa importa che questa libertà egli ritrovasse nel palpito del «piacere» e del «dolore»? Che cosa importa che il non fare, il non essere, il momento negativo eppure dialettico e propulsivo, simboleggiasse sotto il nome di «noia» della noia che costringe a operare? Che cosa importa che gli ideali della bellezza, della virtú, dell’amicizia, della patria, dell’umanità chiamasse «illusioni»? Cosí chiamandoli, praticamente li ammetteva e teoricamente li asseriva, rendendo loro omaggio e riconoscendoli necessari. Donde la vita sua di cittadino, di soldato, di artista, di dotto, di amico e d’innamorato: una vita della quale egli sentí sempre e affermò con orgoglio l’elevatezza e la dignità e l’intima bontà, e che come tale fu risentita da tutta la gioventú d’Italia nel periodo del Risorgimento, e come tale è intesa da coloro che sono esperti del valore umano, pur commisto di umani vizi; se anche maligni e pettegoli, e gente di gretto cervello vi abbiano esercitato intorno sovente la loro moralistica inintelligenza. Ma tal sia di loro! (p. 72).

Riaffermata la positività e l’unità della vita e della personalità foscoliana, e persino la fecondità del suo pensiero («Voglio dire che il Foscolo, pure restringendo l’indagine nella cerchia dell’animo umano, pure dichiarando di non volere risalire all’origine delle cose, pensò vivi e fecondi pensieri sull’uomo, sull’arte, sulla politica, sulla morale, sulla storia, sulla religione», p. 73), il Croce allarga il suo “elogio critico” con una sequenza di giudizi positivi incatenati con il suo tipico vigore di storico, di “sí” e “no” come di “poesia” e “non poesia”, esaltando il suo senso di storicità («né già di erudizione, aneddoti o esempi storici, ma proprio di storia oggettiva e sostanziale»), di serietà della critica che tolse di mano «a frati e accademici», il suo concreto impegno nel momento politico come parte integrale della sua intera personalità umana.

Ma, al di sopra di questa valutazione ricca e positiva dell’uomo e del pensatore, il primato della poesia viene assicurato sul tema, anche ottocentesco, della liricità essenziale dello spirito foscoliano. «L’animo poetico si sente nelle stesse sue prose, nelle quali, specie nelle prime, quell’impeto non lascia che la prosa si squilibri e si adagi come prosa, sebbene le conferisca forza e colore...» (p. 76). Ne deriva un sommario giudizio dell’Ortis sentito (sulla indicazione del Donadoni) come essenziale vivaio dei motivi successivi («I vari motivi della poesia del Foscolo sono già tutti in quel libro»), ma anche come libro non realizzato per eccessiva tensione (richiama Bettinelli, ma lo spunto a lui veniva dal De Sanctis) e per ibridismo fra lirica e prosa, senza spingersi in una valutazione impossibile nel ritmo rapido del breve saggio: e soprattutto come pedana di slancio per i Sepolcri, in cui i motivi dell’Ortis tornano spiritualizzati in poesia, come certi motivi (quelli delle «Ninfe ignude») trovano la loro vera vita poetica nelle Grazie.

Ma il discorso sulla poesia si fa piú incerto e sfocato: sui Sepolcri si riduce ad uno schema di quattro motivi, Morte, Eroismo, Bellezza, Fantasia o Arte, le Odi sono sentite sollevate da un «sorriso magico-poetico» impreciso come la pagina troppo bonaria che vuol legarle alle Grazie, piú descritte per alcune immagini di rasserenamento che individuate in un giudizio.

Se non che l’ammissione di quella poesia nel cerchio della vera vita poetica del Foscolo, assicurata dalla sua pienezza umana («tutta l’umanità si sente in ogni punto, anche dove pare che domini l’incanto della bellezza e della voluttà», p. 83), indusse il Croce a ritornare sull’argomento in un articolo Intorno alle Grazie riportato in Poesia antica e moderna (seconda edizione, Bari 1943).

Non è un contributo da paragonarsi a quelli del Flora e del Fubini, rimanendo molti saggi crociani a mezzo fra il giudizio e l’alta lettura antologica appoggiata soprattutto a queste parole:

Nella contemplazione della bellezza muliebre, e di questa che l’arte e la poesia ci donano, il cuore di Ugo Foscolo si creava il mondo, in cui, trasceso il desiderio, circondato da immagini di sogno, sensibile a ogni affetto gentile, aperto all’umana pietà, gli piaceva vivere (p. 370).

E non è certo un avvicinamento alla musica delle Grazie l’accertamento un po’ svagato, un po’ compiaciuto della serenità, dell’ammirazione della bellezza al di sopra della dura realtà, ma è importante la decisa affermazione della speciale compiutezza dei singoli brani esistenti dell’incompiuto poema.

All’autore della Poesia di Dante le «liriche» delle Grazie dovevano apparire come una scelta di poesia e non poesia già avvenuta e nulla affatto bisognosa di un disegno generale, di una trama, di una struttura.

Il frammento, che soleva e suole ancora essere oggetto di malcontento e di lamento da parte dei retori, è spesso impropriamente designato con quel nome, ed è in realtà nient’altro che l’organismo poetico vivo, l’unità poetica vera e genuina, la quale conviene asserire e far valere contro l’altra delle opere congegnate, che sole i sopraddetti retori stimano unitarie e che i lettori sensibili e intendenti scompongono mentalmente in poesia e non poesia (p. 372).

Certo la svalutazione assoluta del disegno delle Grazie, della volontà di “poema” o di “inni” del Foscolo, riduce arbitrariamente il complesso problema dell’ultima poesia foscoliana, ma le autorevoli pagine del Croce costituiscono ugualmente un essenziale avvio – sul prolungamento ideale del saggio desanctisiano – a nuove indagini sulle Grazie e sulla loro importanza nello sviluppo della poesia foscoliana.

Con il libro di Giuseppe Citanna, crociano di stretta osservanza (La poesia di Ugo Foscolo, Bari 1920 e riedito con forti «aggiornamenti» nel 1932), la critica della distinzione di “poesia e non poesia” faceva la sua prova essenziale (il Croce autorizzò il Citanna, lo difese e in qualche modo lo utilizzò come espressione di esigenze crociane) con la poesia foscoliana.

Il libro del Citanna reagiva alla valutazione generale del Donadoni e si rivolgeva tutto alla “poesia” per scoprirne la genesi, l’eventuale unità generale e analizzarla nei suoi momenti realizzati e nella sua ganga di non poesia.

Per questa ragione, se il resto del saggio costituí una fine elaborazione di motivi intravveduti dal De Sanctis e dal Donadoni su un piano piuttosto psicologico e storico, è sui Sepolcri che l’analisi idealistica porta una nuova discussione diretta all’enucleazione della poesia dalla non poesia tradizionalmente non avvertita nell’unico impeto di eloquenza e di lirica equivocamente unite.

Questo era il tema nuovo e tipico della critica di scuola crociana e il suo passo avanti rispetto ad una accettazione troppo entusiastica e piena di giustificazioni piú o meno allotrie dopo gli attacchi del primo Ottocento all’oscurità e all’empietà.

I Sepolcri venivano calati da quel cielo dei capolavori di genio in cui le pagine desanctisiane (verificate la loro vitalità e storicità) li avevano saldamente assicurati e venivano sezionati e studiati non alla maniera dei commenti ottocenteschi grammaticali, fontisti, contenutistici e formalistici insieme, ma con un nuovo impegno di riconoscimento della loro vera natura.

La fusione maggiore della nuova edizione appoggiata ai saggi sulla poesia italiana dal Parini al Carducci[5] (maggiore attenzione al significato storico foscoliano) non cambiò in sostanza il valore del capitolo centrale sui Sepolcri. C’è anzitutto una salutare reazione alla preminenza del motivo politico patriottico nella presunzione persino delle scarse possibilità poetiche della cosiddetta poesia civile: caduta dunque di miti risorgimentali che accomunarono anche De Sanctis e Carducci e che rimasero in vita anche nel positivismo (si veda la rabbiosa stroncatura del Cian al libro del Citanna nel «Giornale Storico della letteratura italiana», LXXX) unendosi al mito pure romantico dell’organico, dell’unità inevitabile del capolavoro quando sia assicurato a una pienezza di vita e ad una situazione concreta. Per cui già nel giudizio frettoloso sull’Ortis egli parlava di poesia «oratorizzata» e vedeva nell’intonazione «moralistico-patriottica» la causa della caduta del libro in cui oratoria e non poesia prevale su poesia e d’altra parte artifici e romanticismo esteriore soffocherebbero il «romanzo» e i «personaggi».

Distrutta la centralità del motivo patriottico ed anzi individuate nel celebre episodio di S. Croce le punte piú chiare di una oratoria pericolosa per la poesia (e il Momigliano che pure difendeva l’unità ammetteva: «Se al nostro cuore di italiani l’inno alla tomba di S. Croce è il passo piú caro dei Sepolcri, al nostro gusto di lettori di poesia non può sfuggire che v’è maggior sobrietà di disegno e forza di suggestione e concentrazione di umana tenerezza e di eroica fede nelle Muse che siedon custodi dei sepolcri», «Rivista d’Italia», 1928), l’unità del Carme era – sia pure con molta prudenza – risolta in una dualità di didascalica e lirica causate dal «compromesso» foscoliano fra la sua fede nella poetica illusione e il suo pessimismo negatore materialistico.

E sulla scorta di questa divisione di motivi, il Citanna isolava (e spesso con risultati poco accettabili, come l’eccessiva valutazione dell’episodio del cimitero suburbano per cui si parla di Chopin!) i momenti realizzati e quelli piú prosastici (poesia e non poesia o poesia e prosa): specie i passaggi in cui l’esigenza del compromesso logico farebbe sentire la sua piú nuda ed impoetica presenza.

È su questo punto che piú si fa sentire la novità del metodo di scuola crociana ed è su questo punto che quanti si occuparono dei Sepolcri non poterono che ammettere comunque la presenza di oratoria nel Carme e la sua diversa altezza poetica.

Questo è il problema aperto dal Citanna, piú notevole che non il tentativo di valutazione positiva delle Grazie.

Il capitolo finale sulle Grazie è ricco certamente di osservazioni: ma è il gusto del critico che rimane inadeguato e che ingannò il Citanna nel paragone fra le Grazie e l’estetismo dannunziano, nell’eccessivo rilievo alla pittoricità e plasticità di quella poesia cosí arditamente musicale.

Cosa ci si può attendere da un lettore delle Grazie che ne dà un’impressione cosí dekarolisiana e da “Cronache bizantine”?

Dalla lettura delle Grazie resta sempre nella mia anima raddolcita una visione di nudità femminili sparenti tra cieli sereni e acque limpide, in una luminosità colorata e mutevole di toni molli e sfumati, che s’accendono sino alle tinte piú vivaci del rosso, del celeste e del viola!» (p. 131).

Ma notevole è la posizione iniziale che riconosce importanza al disegno, al piano, alla struttura delle Grazie rifiutando la dissoluzione in liriche senza nessun originario legame. E ciò che ci interessa piú delle strane affermazioni della «mitologia femminile», della lettura scadente e orientata a dimostrare l’estetismo, la sensualità raddolcita dannunzianamente che il Citanna non riuscí a correggere sulle indicazioni del Fubini e sul retorico rimprovero del Cian di non aver sentito l’umanità di quella poesia. Che egli afferma indubbiamente – secondo la difesa della Postilla del ’32 – ma che minimizza quando parla cosí centralmente di estetismo e non di grande arte che inverava le piú alte aspirazioni del romanticismo neoclassico.

Il problema dell’unità dei Sepolcri e della valutazione dei sonetti e delle Odi diede luogo ad un’abbondante produzione di commenti che la scuola di critica estetica affiancava a quelli interpretativi in senso storico e contenutistico della scuola del metodo storico: accanto ai vecchi commenti del Martinetti e del Ferrari, quelli del Porena, del De Robertis (Poeti lirici del sec. XVIII e XIX, Firenze 1925), del Biondolillo (Poesie e prose scelte, Milano, 1927), del Momigliano (Prose e poesie scelte, Messina 1929), del Russo (Prose e poesie, Firenze 1941).

Ma la critica piú recente ha soprattutto insistito sul problema delle Grazie nel tentativo di meglio giustificare il generale cammino della poesia foscoliana e di valutare piú adeguatamente l’ultima attività del poeta che l’Ottocento e il De Sanctis non avevano compreso.

7. Il problema delle «Grazie»

Sul problema delle Grazie, che poteva implicare, piú che un’aggiunta al vecchio ritratto del Foscolo, un totale rinnovamento e una caratterizzazione delle tendenze della ispirazione e della poetica foscoliana verso il tono delle Grazie piuttosto che verso quello dei Sepolcri (e questo avviene in parte nel Flora e piú chiaramente in un critico francese, Armand Caraccio, il cui Foscolo, Parigi, 1930, punta tutto sulla superiorità assoluta delle Grazie: «Ce poème inachevé, dont nous possédons plusieurs rédactions et remaniements et qui comporte d’innombrables variantes, est l’oeuvre poétique la plus longue et, a notre avis, la plus caractéristique, d’Ugo Foscolo; nous n’hesitons pas à la placer au sommet de son art, sans trop nous soucier du reproche qu’on a lui a maintes fois adressé d’être incomplète et de conception fragmentaire»; p. 475[6]), si prospettavano alcune posizioni essenziali: quella anzitutto dello Sterpa (Mimmo Sterpa, Le Grazie, Catania 1930) con cui sostanzialmente concorda il Fubini e che viene espressa dal Fubini stesso in una sua recensione di quello studio sul «Leonardo» del 1931.

Le Grazie, pensa lo Sterpa, non vanno giudicate come un poema mancato, un poema che il Foscolo abbia vagheggiato e non sia riuscito a condurre a termine per l’inaridirsi della sua vena creativa o per un preteso suo abbandono ad un esercizio dilettantesco, ma come una collana di liriche, in sé compiute, in cui c’è tutta la complessiva personalità foscoliana e a cui nulla manca per essere considerata compiuta poesia; non è riuscito, è vero, il tentativo fatto dal Foscolo di racchiuderle tutte in un poema epico-didattico, ma non già per l’insufficienza poetica di quei pretesi frammenti, bensí proprio per la loro compiutezza poetica, perché la varia poesia fremente nel loro ritmo conclusivo non riusciva ad adattarsi agli schemi delle architetture e dei sommari (p. 323).

Negato il carattere “frammentistico” che non dispiaceva al Croce nel suo significato di liriche in sé compiute, questa posizione è in realtà sulla via indicata dal Croce stesso e conclude per la dissoluzione del disegno, tendendo ad una valutazione piuttosto delle singole liriche nella loro “varia” poesia che della poetica delle Grazie e del tono poetico generale.

Piú tardi Luigi Russo (Le Grazie e la critica contemporanea, «Italia che scrive», 1941), mentre credeva doveroso di reagire «alla popolare inclinazione che oggi vorrebbe deprimere la poesia dei Sepolcri per la poesia delle Grazie», e indicava cosí come il gusto contemporaneo si fosse venuto orientando, sollecitato anche dalle discussioni sulla unità dei Sepolcri e sull’origine eloquente di certe parti del Carme, definiva la poesia delle Grazie «poesia episodica, non poesia frammentaria», reagiva giustamente a una degustazione di tipo estetizzante («anche per il verso delle Grazie bisogna astenersi dalle equivoche suggestioni del decadentismo contemporaneo che ci porterebbe a isolare alcuni bellissimi versi, avvertendovi risonanza di un’estenuata e rarefatta ed evasiva umanità») e all’interpretazione di un Foscolo esteta, e si preoccupava di alimentare quella poesia con la presenza dell’intera umanità foscoliana parlando persino di una speciale politicità delle Grazie, di un impegno nella vita non smentito neppure dalla creazione di un “iperuranio” apollineo della poesia.

La posizione di Francesco Flora invece, pur nella ammirazione un po’ eloquente del Foscolo vichiano dei Sepolcri, parte dal «culto amoroso della parola» di cui aveva parlato il Tommaseo e vede nelle Grazie la piú grande poesia del primo Ottocento europeo.

Nel suo Foscolo (Milano 1940, ripreso dalla rivista «Circoli», 1938, e passato in riassunto nella Storia della letteratura italiana) un’attenzione eccessiva, anche se nuova e importante, alla «consolazione» e «religione della parola» sta alla base del saggio piú che non le osservazioni sulla natura filosofica del Foscolo, sulla sua cultura e sintesi fra gusto tassesco e novecentesco («in queste armonizzazioni delle proprie immagini e fin delle sillabe e lettere di un verso, creando suoni scuri, bianchi, intimamente connessi a tutti gli altri rapporti sensibili e spirituali d’una parola, il Foscolo raggiunge effetti di alta eleganza»; p. 95) la valutazione particolare delle Grazie.

Le Grazie sono il sereno mondo degli affetti che vuol vivere come pura forma. L’argomento stesso, con tutto quel che ha di mitico e di classico, il richiamo di Canova e piú il richiamo a Pindaro e Callimaco, provano questa poetica che ha già trasposti gli affetti e le passioni nell’ideale regno della memoria ove non fan piú tumulto, e solo chiedono la bella forma classica, quella che ha non so qual sottaciuto paragone alle statue dei Greci e ai dipinti Parnasi, che sono monti e tempi della Memoria e delle Muse (p. 198).

Ottima impressione delle speciali dimensioni del mondo delle Grazie, anche se traduzione modernizzante del saldo gusto foscoliano verso preannunci di “lirica pura”, come il problema dell’unità viene trasportato dal contrasto fra liriche e poema nell’esistenza di un’«aura» delle Grazie, di un tono di quella che egli chiama «grazietà» (p. 99). «Ma l’unità vera delle Grazie non è di successioni piú o meno ragionate: è il suo aere astrale che si ritrova nelle minime sillabe, la virginea nascita nella fonte dei suoni primi...» (p. 100). «... Sí, i singoli passi sono isolati, ma sotto la lor melodia c’è l’orchestra delle Grazie; dite pure l’aura delle Grazie, quella che fu la prima ispiratrice del Foscolo; e che neppure la teoria didascalica riuscí a contaminare. E le singole espressioni poetiche sono pure sospese a quello aereo circolo: e la vergine romita, ad esempio, è in quella labile aria, come la trasparente medusa che brivida tra l’onda dell’acquario che tutta l’avvolge e la illumina» (p. 101).

A parte la deformazione del linguaggio di Flora che accentua ed esagera i toni di estasi, di alone platonico delle Grazie (poesia che richiede una lettura poco abbandonata e piuttosto stringata e sorvegliata per non cadere nei pericoli che essa può offrire all’equivoco del decadentismo, di un dannunzianesimo piú raffinato e «rapito fuor dei sensi»), le finissime e personali osservazioni del Flora costituiscono attacchi, punti di partenza (l’aura poetica, le ricerche di musica esplicite nei sommari stessi del Foscolo: musica media, musica alta, ecc.) piú che un approfondimento coerente dell’intenzione e dell’ispirazione foscoliana pur sentite con esattezza nel loro posto altissimo. Una appassionata esaltazione, una lettura ricca di stimoli su di una posizione sostanzialmente poco motivata circa la natura di questa poesia troppo sentita in un trionfo di distacco apollineo e troppo poco nel suo dramma di superamento sereno e dolente di una visione disillusa e dura della realtà.

8. Gli studi del Fubini e lo stato attuale della critica foscoliana

Fra i contributi della critica contemporanea al problema foscoliano vanno ricordati per la loro particolare importanza gli studi del Fubini.

A Mario Fubini (ora direttore della edizione nazionale delle opere foscoliane, Le Monnier, Firenze, di cui usciti attualmente solo il primo volume dell’Epistolario, a cura di P. Carli; il VII, Lezioni, articoli di critica e di polemica, 1809-1811, a cura di E. Santini; l’VIII, Prose politiche e letterarie, 1811-1816, a cura di L. Fassò) si deve non solo uno dei saggi piú ricchi e personali sulla poesia foscoliana (dopo del quale nessuna sintesi di pari ampiezza è stata tentata se non con intenti e qualità divulgative e compilative come nel volume di G. Dolci, Ugo Foscolo, Milano 1935, o nelle scadentissime monografie del De Donno, Costanzi, ecc.), ma l’esplorazione sicura e competente della “selva” foscoliana fra anni ortisiani e periodo sterniano, fra Didimo Chierico e le Lettere dall’Inghilterra: problemi questi che costituiscono i punti piú discussi e piú nuovi nella critica foscoliana, essenziali per un ritratto piú vario e complesso del Foscolo.

Il Saggio sul Foscolo di Mario Fubini (prima edizione, Torino 1928; seconda edizione, Firenze 1931) parte dalla volontà di valutare il Foscolo come poeta e nel suo tempo senza cercarne i legami con gli sviluppi del romanticismo e del risorgimento, che molto spesso hanno originato le accuse al Foscolo di contraddizione, varianti secondo l’immagine storica di cui il poeta veniva considerato “precursore”.

Assicurato un ritratto sensibile e ricco del Foscolo nelle Lettere di J. Ortis e nell’epistolario, sentito anche come poesia minore e quotidiana che sorregge la poesia illustre (punto suggestivo e rinnovatore anche se inevitabilmente sforzato rispetto al tono sempre un po’ montato ed eloquente del Foscolo anche nella direzione del familiare o dello scherzoso), il saggio fubiniano congiunge il ritratto dello Ortis (Ortis come ritratto: «La ragion di vita delle Ultime lettere non è né nel dramma amoroso, né nel giudizio politico: è nella presentazione non di un carattere artistico, ma di un fantasma, che deve essere ritratto reale ed ideale ad un tempo dello scrittore, di ciò che egli è e di ciò che egli vuol essere»; p. 28), attraverso il tono ironico del frammento di un romanzo autobiografico, a quello di Didimo Chierico, diversamente dagli studiosi che han piú marcato il passaggio e il contrasto fra quei due momenti foscoliani.

La poesia foscoliana viene affrontata dopo l’accertamento dell’umanità, della complessità e della funzionalità del pensiero alla poesia, e le Odi sono presentate come il “dolce stil novo” di Ugo Foscolo nel loro motivo della femminilità che si trasforma in beltà sempre piú mitica e poetica dalla prima alla seconda ode.

Mentre i Sonetti vedono il ripresentarsi di motivi ortisiani e il prevalere di un maggiore dominio nei piú riusciti: A Firenze, A Zacinto, Alla sera, In morte del fratello Giovanni, dopo i quali il Foscolo «non poteva ritornare alla descrizione della propria infelicità e dei propri furori. Ormai la poesia gli si era rivelata come un atto di elevazione dell’animo su sé medesimo: né egli avrebbe osato abbassarla a confessione» (p. 227). Donde il tono sicuro dei Sepolcri che «unificano le tendenze contrastanti della poesia foscoliana di questi anni» (p. 239).

La questione dell’unità, tipica di quegli anni della critica, si ripresenta nella particolare prospettiva del Fubini: «poesia discorsiva e poesia appassionatamente fantastica» con duplice intonazione: schema settecentesco di epistola con legami logici piú che poetici («Ah sí! da quella / religiosa pace un Nume parla...»), quasi «epigrafi nobilmente decorative» (ed ecco come Fubini rialza con eleganza originale una tesi piú comune) con dentro una collana di liriche.

La trama discorsiva del carme offre al poeta lo spunto per una collana di liriche mirabili, che tendono ciascuna a stare per sé, e pure si ricongiungono in una unità superiore per la presenza di uno spirito contemplativo che va atteggiando differentemente con la sua fantasia alcuni motivi fondamentali (p. 250).

È una tesi estrema che non ci urta per il vivo senso della poesia che il Fubini dimostra nell’accennare all’«esaltazione sempre piú intensa della fantasia del poeta che dall’iniziale colloquio si solleva a contemplare un campo sempre piú vasto e sempre piú grandioso» (p. 252), alle varie intonazioni adeguate con sensibilità e intelligenza («l’anelito verso le cose belle e fuggenti»), e che indica indubbiamente il punto estremo raggiunto dal problema dei Sepolcri e la strada aperta per un accoglimento delle Grazie e addirittura per il loro primato. Una «collana di liriche» i Sepolcri, «collana di liriche» le Grazie.

Certo il mito dell’unità dei Sepolcri, pacifica per i romantici, entra in crisi nel Novecento risolvendo il carme in «collana di liriche» nate in un afflato generale. Ma perché non sentire che vana è la ricerca di una unità organica nel senso assoluto della parola quando l’analogia con una sinfonia musicale fa ben capire come varietà di temi e unità di disegno generale si condizionino in ricchezza e forza? Cosí i Sepolcri, a parte i momenti piú deboli (come quello, giustamente indicato dal Fubini e difeso vanamente dal Citanna, del notturno cimiteriale o del sogno delle «madri esterefatte»), bisognerebbe abituarsi a sentirli come sinfonia, come Carme (senza farsi abbagliare dal senso eccessivamente unitario in senso esterno della parola), proprio come il Foscolo stesso lo sentiva unito e vario, capace di un unico respiro essenziale e di una vita varia di motivi omogenei, rampollati dalla stessa tensione di canto alla poesia vincitrice di morte. Unica tensione essenziale in cui si alzano e si abbassano toni e motivi e, se si vuole, incontro sí di epistola settecentesca e di inno neoclassico-romantico, ma non in contrasto, bensí in dialettico svolgimento, in cui drammaticità ed eloquenza appaiono come nutrici di lirica.

Il Fubini, che pure si indugia troppo in una implicita polemica sull’unità o meno, sentí bene che il punto alto, la meta del carme e la sua realtà di armonia ricercate dal Foscolo è nell’ultima parte, quando la poesia «diventa voce della comune coscienza degli uomini» (p. 273), e lungi dal chiudere un momento di intensità e vitalità storica del Foscolo (come era parso al De Sanctis) apre un periodo in cui il poeta sente fortemente la sua qualità di innografo, di vate, si avvicina sempre piú nella sua volontà ad Omero e trasporta persino il mondo omerico nel teatro in Ajace.

E questa ispirazione si afferma nelle Grazie a cui, secondo la nuova attenzione della critica, il Fubini nel capitolo VI del libro dedica uno dei suoi saggi essenziali, premettendo acutamente che i negatori delle Grazie dal De Sanctis in poi «sembrano, con la loro condanna sommaria, fraintender non le Grazie soltanto, ma tutta l’opera del Foscolo, giudicandola opera di passione irruente, anziché di lirica riflessione...» (p. 290).

Accentuato nel Foscolo precedente piuttosto il tono del «religioso vate dell’armonia» che non del «disperato amante delle illusioni», il Fubini (non senza sforzo) aveva preparato la comprensione delle Grazie come sviluppo di quell’essenziale interesse poetico. Maggiore accordo tra il poeta e il mondo, maggiore scioltezza della forma in cui «chiarezza ed evidenza della rappresentazione» diventano il «tono caratteristico di quest’ultima poesia foscoliana». Certo il Fubini adegua con finezza molti toni della poesia delle Grazie, insiste sulla loro umanità, respinge giustamente la «plasticità» delle immagini e pensa doversi parlare semmai di «musica», trova realizzata nelle Grazie la naturale tendenza mitica del Foscolo, ma poi è anche in questo caso troppo preso dalla polemica allora esistente su poesia frammentaria e non frammentaria, e finisce per trascurare sia una lettura estetica quale aveva fatto per i sonetti, sia un piú sicuro raccordo fra letteratura e poesia, fra poetica e poesia, risolvendo le Grazie in liriche staccate di cui in realtà non studia i singoli risultati né quella «grazietà» di cui parla il Flora[7].

Un bellissimo capitolo sul critico chiude questo saggio essenziale: vi si notano la coscienza del linguaggio, i limiti della concezione critica foscoliana non avvicinabile a quella desanctisiana, ma anche la forza originale della sua intuizione e soprattutto di quella difesa della fantasia contro la realtà nei riguardi del dramma storico manzoniano e in generale di tutto il romanticismo ufficiale italiano. Osservazione che legata al mito del poeta primitivo (il Fubini ne parlò con grande intelligenza nell’Introduzione agli Scritti critici del Foscolo, Torino 1926) può servire anche utilmente alla precisazione del particolare romanticismo neoclassico foscoliano e alla sua forza vitale ed europea.

Il saggio del Fubini è, malgrado le sue notevoli qualità di penetrazione e di sintesi, troppo rinchiuso nelle polemiche degli anni in cui uscí e in cui i problemi della critica contemporanea erano ancora in via di chiarificazione. Sí che quel saggio pare richiedere un ripensamento piú maturo, piú distaccato e unitario e insieme un arricchimento di ulteriori problemi particolari a cui il Fubini effettivamente si è dedicato dopo le due edizioni del Saggio.

E proprio recentemente, ad integrazione e preparazione di una nuova edizione del suo saggio, il Fubini ha raccolto in volume alcuni saggi sotto il titolo di Foscolo minore (Roma 1949) indicando una zona di ricerche tipica di quest’ultimo ventennio di studi foscoliani e nello stesso tempo limitandone il valore sempre in funzione non di un “nuovo” Foscolo, quanto di un arricchimento ed un assestamento del Foscolo presentatosi nelle interpretazioni della critica storicistica ed idealista, nell’attenzione di critici-letterati piú sensibili a quei toni di humour, di disegno sottile e pacato che erano sfuggiti all’interpretazione De Sanctis-Donadoni e ai primi interpreti idealistici. Contributi essenziali soprattutto al periodo piú complesso e aggrovigliato dell’operosità foscoliana fra Ortis e Sepolcri, negli anni milanesi e francesi fra Jacopo e Didimo. Sulle accanite discussioni circa le datazioni di scritti essenziali a dipanare e sistemare quel periodo e quel passaggio di gusto e di poetica, risolte a volte a bruschi colpi di scoperte erudite, a volte con intuizioni sullo stile, Fubini porta il suo metodo lucidamente razionalistico e come tale capace di utilizzare intuizioni estetiche e indagini storiche e filologiche, e presenta un quadro assai nitido che dovrà essere confermato nel prossimo volume dell’Edizione Nazionale di Prose varie d’arte.

Frammenti del Sesto tomo dell’io (che doveva essere la storia di un anno della vita del Foscolo dal 4 maggio 1799 al 4 maggio 1800) contemporanei al carteggio con la Fagnani Arese (e ispirato in parte dall’amicizia con il Lomonaco): amicizia, esperienze essenziali per il Foscolo e d’altra parte avviamento ad una maturità e complessità di toni ironici e appassionati, delicati e realistici che indicano una nuova epoca della poetica foscoliana dopo quella dell’Ortis, pur cosí vicina e capace di infiltrarsi entro la nuova, come già in essa stessa il nuovo tono si introduce, complicando cosí anche l’ultima stesura del 1802. (Addirittura passi del Sesto tomo dell’io portati nell’ultimo Ortis, azzarda il Fubini nel suo studio cosí minuto e deciso[8]). E nel saggio sulla Storia esterna di Didimo Chierico traccia una nitida linea del complesso problema di personalità e di stile a cui si erano già dedicati il Rabizzani (Sterne in Italia, Roma, 1920), il Marcazzan (Didimo Chierico ed altri saggi, Milano 1930), il Berti (Foscolo traduttore di Sterne, Firenze 1942), il Momigliano (Foscolo e Sterne, in Studi di poesia, Bari 1938), il Varese nella sua Vita interiore di Ugo Foscolo, Bologna 1942 e nell’acuto saggio sul Linguaggio sterniano e linguaggio foscoliano, Firenze 1947; come nel saggio sulle Lettere scritte dall’Inghilterra precisa il valore e la funzione di quell’opera incompiuta e di una prosa foscoliana piú vicina alla linea iniziata con il Sesto tomo e con la traduzione sterniana: quella prosa che è in relazione con le Grazie e che poteva preparare altra poesia a cui il Foscolo si sentiva chiamato e della cui mancanza soffriva nel periodo londinese.

Tra i saggi piú recenti sulla poesia foscoliana che avremo modo di citare in occasione di osservazioni particolari, merita un ultimo accenno il libro di R. Ramat, Itinerario ritmico foscoliano (Città di Castello 1946), in cui si insiste sulla ricerca del Foscolo di un ideale ritratto di sé come modulo poetico, come proprio ritmo che investe i sentimenti, le passioni, la vita; e si rende permanente la crisi «sí ch’egli è romantico dal principio alla fine» (p. 15). Accettabile osservazione quando si precisa meglio di quale romanticismo e in quali limiti storici se ne parli: utile reazione tuttavia a immagini di insipida serenità, di religione puramente estetica, ecc. mentre nel Foscolo ogni serenità, ogni superamento nel regno della poesia è dinamicamente legato al senso duro e drammatico della realtà.

Non si può dire che il libro di Ramat apra nuove prospettive né in linea di sintesi, né in linea di contributi parziali e questo può essere la condanna di sterilità di lavori che non scelgano o la via di ricerche particolari (ad esempio, il Foscolo traduttore di Omero, sternismo e Grazie, particolari relazioni di cultura tra Foscolo e la letteratura inglese nel periodo londinese, fra la prosa del primo Foscolo e la prosa italiana del secondo Settecento, ecc.) o quella di una linea storica capace di usufruire dei contributi moderni in un paziente rilievo e in una sistemazione generale, meglio legando cultura letteraria e poesia, intenzioni e risultati, pensiero, critica e poesia.

In sostanza abbiamo visto come nelle varie fasi della critica foscoliana si giunga alla sintesi desanctisiana attraverso la polemica risorgimentale e come quella sintesi abbia retto e sia stata spiegata ed arricchita nel primo Novecento dopo il periodo di preparazione di materiale da parte della scuola del metodo storico: poi come la critica idealistica crociana pur non smentendo la parabola desanctisiana abbia allargato lo sfondo culturale foscoliano, abbia allungato la parabola della poesia fino alle Grazie pur mantenendo il centro nei Sepolcri, discussi però nella loro poesia e non poesia. Infine come la critica piú recente abbia puntato decisamente sul Foscolo delle Grazie quanto a poesia e sul Foscolo minore e didimeo lasciando piú in ombra Ortis e Sepolcri. C’è stato cioè prima un arricchimento della linea desanctisiana, poi una demolizione di vari passaggi nel rilievo di caratteri e di valori o trascurati o negati dal De Sanctis.

Siamo in una fase tuttora di studi rinnovatori e particolari: calato il ritmo degli studi critici di poesia e non poesia, siamo piuttosto nella fase di una nuova critica fra letteraria ed erudita che tuttora discute e assicura punti dello sviluppo foscoliano, mentre la nuova filologia prepara un testo critico di tutto il Foscolo e soprattutto delle parti tuttora, in senso assoluto, “illeggibili”: Grazie e traduzioni omeriche.

Per quanto persuasi che una vera storia della poesia foscoliana si potrà fare fra qualche anno, alla fine di questo lavoro di edizione e di chiarimento storico di alcuni punti piú discussi, sembra tuttavia utile un anticipo in direzione di una nuova sintesi.

Senza pretese e con estrema cautela, in un campo cosí sconvolto da lavori in corso, può essere stimolo e contributo uno studio che, servendosi unitariamente di ricerche ancora non collegate, prepari con salda coscienza storicistica un cammino dell’attività foscoliana in funzione della sua essenziale poetica, nelle sue fasi diverse e complesse. Nel groviglio di fermenti e di curiosità tipici dell’animo foscoliano, la maggiore possibilità di unificazione e di chiarificazione sta appunto nello stabilire i momenti di volontà costruttiva, i momenti di programma poetico, di attacco a nuove forme di arte, di discussione letteraria, entro cui fiorisce l’ispirazione e i risultati personali si spiegano e si staccano.

Ogni poeta quanto è piú grande tanto piú è originale e supera ogni poetica di gruppo (si pensi al Dante della Commedia e al Dante della Vita Nova), ma la sua originalità diventa tale appunto nel superamento della cultura letteraria, non in una romantica solitudine e “ingenuità”, e noi possiamo leggere la sua grandezza non su di un astratto sfondo neutro o misurato su di una tabella di gradi assoluti, ma proprio nell’intensità con cui egli realizza e supera le premesse del suo tempo, assorbe e brucia gli alimenti della cultura letteraria nel suo respiro originale per una propria creazione.

Ciò che avvertiremo subito nella formazione del giovane Foscolo, di “Nicoletto” che diventa Niccolò Ugo ed Ugo, non senza utilità per Ugo di essere stato Nicoletto, di aver costruito e trovata la propria originalità in un noviziato, tutt’altro che trascurabile e negativo.

Per la bibliografia foscoliana essenziale il volume di A. Ottolini, Bibliografia foscoliana, Firenze 1921. Per gli studi successivi si deve ricorrere ai repertori bibliografici generali: G. Prezzolini, Repertorio bibliografico della letteratura italiana, 1900-1932; 1932-1942, Roma-New-York, 1937, 1947; N. Evola, Bibliografia degli studi sulla letteratura italiana: 1920-1934, Milano 1938.

Manca una storia della critica foscoliana. Per l’Ottocento si può consultare il volume poco critico di M. Naselli, La fortuna del Foscolo nell’Ottocento, Genova 1923.


1 Ma notava il Leopardi nello Zibaldone (1° febbraio 1829, edizione Flora, II, p. 1258: «Tutti cominciando dal Pindemonte, nella sua Epistola, hanno biasimato l’introduzione di Ettore e delle cose troiane nel carme dei Sepolcri, e tutti leggono quell’episodio con grande interesse, e segretamente vi provano un vero piacere. Certo, quell’argomento è rancido; ma appunto perch’egli è rancido, perché la nostra acquaintance con quei personaggi data dalla nostra fanciullezza, essi c’interessano sommamente, c’interessano in modo che non sarebbe possibile, sostituendone degli altri, produrre altrettanto effetto». Che era un modo romantico di giustificare il classicismo!

2 Uno studio sulla fortuna del Foscolo nell’800, assai disordinato e senza linea critica, è nel volume omonimo di Carmelina Naselli, Napoli 1923.

3 Opere, XIX.

4 E dell’epoca positivista sono le biografie del De Winckels (Verona 1885-1898), dell’Artusi (Firenze 1878), ed è di origine erudita la biografia di Antona-Traversi e Ottolini, Ugo Foscolo, Milano 1927-1928.

5 Pubblicati sulla «Critica» e poi in volume Il Romanticismo e la poesia italiana, Bari 1935. Ora nuova edizione, 1949.

6 E circa l’allegoria sosteneva: «Nous voulons dire que l’allégorie n’est point surajoutée; elle est intérieure à la création» (p. 573).

7 E una lettura critica delle Grazie non è ancora venuta, come molto spesso anche per i Sepolcri si è rimasti piuttosto ad una discussione generale e ad una ricerca di motivi che non ad un vero esame del loro linguaggio poetico, dei mezzi stilistici e della raggiunta poesia. Ciò che si augurava il De Robertis nel saggio Linea della poesia foscoliana (in Saggi, Firenze 1939, ma già in «Pegaso», 1929), accusando i critici precedenti di attenzione prevalentemente psicologica e contenutistica. «Solo una strenua analisi di stile, ormai, in cui confluisse l’esame di tutta l’opera del Foscolo, potrebbe illuminare e rendere sensibile quella linea della sua poesia che aspetta di essere meglio chiarita dagli studiosi» (p. 71). Giusta esigenza, alla pari di quella espressa pure dal De Robertis di una maggiore attenzione alla poetica foscoliana, al suo calcolo arduo di grande stilista. Ma nel fine saggio derobertisiano, in cui si rilevano con acutezza i passaggi dall’Ortis al Foscolo maggiore (ma in realtà il problema era già vivo nel Donadoni), e si caratterizzano alcuni tipici sentimenti foscoliani (il «passionato» e il «mirabile» nella loro particolare «dosatura»), non si può dire che la linea della poesia foscoliana abbia ricevuto una nuova precisazione come risultato di una lettura che del resto troppo spesso nella critica stilistica si risolve in un esame formalistico e vocabolaristico, scambiando l’operazione complessa del poeta, in cui lo stile è mezzo di espressione di un mondo di sentimenti radicati in impegni precedenti alla letteratura e pur rivisti sempre in termini letterari e poetici, con un raffinato calcolo di cernita di parole in cui il poeta finisce per apparire separato dalla vita e dalla storia e ridotto solo ad uno dei momenti del suo complesso lavoro.

8 A cui si oppose Sebastiano Aglianò, Cronologia e significato del Sesto Tomo dell’io, in «Annali della Scuola Normale», 1941; con replica di Enzo Bottasso, Ancora la datazione del Sesto Tomo dell’io, in «Giornale storico», vol. CXVII. La tesi essenziale del Fubini è appoggiata, malgrado punti di dissenso, anche agli studi di C.E. Goffis (Studi foscoliani, Firenze 1942) che sono diretti soprattutto al rilievo della formazione dell’Ortis ed allo studio delle relazioni fra Romanzo autobiografico e II° Ortis incentrate nello studio delle relazioni Foscolo-Lomonaco: studi di carattere erudito-contenutistico, ma certamente importanti alla soluzione di questi nodi fondamentali e stimolanti ad ulteriori precisazioni critiche.